SCIOPERI ALCAR UNO: PROCESSO A 86 LAVORATORI

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Sono 86 lavoratori SI COBAS i condotti alla sbarra in questo inizio di marzo. Si è aperto, infatti, lunedì scorso, presso il Tribunale di Modena, il maxi processo “Alcar Uno” che vede questi lavoratori, processati a causa degli scioperi e dei picchetti attuati davanti alla Global Carni ed Alcar Uno, alla fine del 2016, contro la schiavitù salariale.

Un’azione che ha consentito di scoperchiare un sistema ben più grande. Ovvero, l’utilizzo della forma cooperativa per evadere il fisco, tendere al massimo lo sfruttamento del lavoro e abbassarne il costo di oltre il 50%.

Come ben spiegato dall’Avvocato difensore Marina Prosperi, in un intervista rilasciata a “Qui TV”, lo sfruttamento avveniva attraverso l’applicazione di un contratto di facchinaggio (servizi) a lavoratori che in realtà lavoravano le carni (alimentari).

Una mobilitazione attuata contro una prassi imprenditoriale spesso utilizzata nel settore carni che, è bene ricordarlo, ha certamente contribuito a far emergere e quindi a certificare poi, con atto esecutivo dell’autorità giudiziaria, una situazione di sfruttamento ed una maxi evasione fiscale e contributiva, scoperta dalla Finanza ed attribuita, alla stessa ALCA UNO e al suo ex presidente Sante Levoni.

ALCA UNO, è la stessa azienda, specializzata nella lavorazione delle carni, che precedentemente all’intervento della Guardia di Finanza, ha contribuito all’arresto del portavoce nazionale SI COBAS, Aldo Milani, poi assolto dall’accusa di estorsione.

Il paradosso, infatti, di questa vicenda sta proprio negli eventi che hanno preceduto questo processo che, ricordiamo, vedrà coinvolti nei prossimi mesi altri lavoratori, oltre a questi 86 attualmente a giudizio.

E’ Marcello Pini, sindacalista SI COBAS Modena, a spiegare, durante un’intervista, fuori dal Tribunale di Modena che:
Le nostre mobilitazioni sono avvenute nel rispetto dei dettami costituzionali dei picchetti ma questa protesta sindacale è considerata dalla Procura e dalla Questura, un reato, attraverso l‘applicazione del Regio decreto del 31, di codice fascista”.

Un decreto (REGIO DECRETO 18 GIUGNO 1931, n. 773 – GU n. 146 del 26/06/1931) che considera l’atto sindacale di mobilitazione e di rivendicazione, una manifestazione non autorizzata e violenza privata.

Curioso è che questo decreto, che sino ad oggi non aveva mai trovato una sua così larga ed indiscriminata applicazione, se utilizzato “senza limitazioni” da parte delle Procure contro le mobilitazioni rivendicative, ottiene il risultato di criminalizzare a norma di legge, il diritto di sciopero e le organizzazioni sindacali rivendicative e non vicine alle organizzazioni imprenditoriali.

Questo è solo uno dei tanti maxi processi al sindacato a Modena – continua il sindacalista SI COBAS – In tre anni sono stati imputati ufficialmente dalla Procura di Modena oltre 500 tra operai e sindacalisti per gli scioperi avvenuti nella nostra provincia. Noi siamo sereni perché è le nostre lotte sono tutte per il rispetto della legalità di fatto dei contratti, la legalità dentro i luoghi di lavoro”

L’inizio del processo in un giorno di Covid conclamato
La Corte di Assisi del Tribunale di Modena è da subito affollata all’inverosimile.
Alle ore 9.00 il Dott. Francesco Cermaria, Giudice del procedimento, inizia l’appello degli imputati e i lavoratori si sentono chiamare per lo più in modo incomprensibile a causa dell’acustica dell’aula e della difficile pronuncia dei loro nomi e cognomi per la maggior parte di origine straniera.
El Jazouli M., nato in Marocco
Daj L. , nato in Albania
Ameyav N., nato in Ghana
Bapary F., nato in Bangladesh
Hakim A., nato in Sudan
Hassane N.Y.A.E. nato in Egitto
Khalifi S., nato in Tunisia
Kholod M. nato in Ucraina
Ndoye O. nato in Senegal ecc.
Lavoratori stranieri”, che in realtà, oltre ad avere tra le loro file numerosi lavoratori italiani come Esposito G., Corbelli T., Di Giorgio F., Ceccoli A., Aveta A. ect, non rappresentano una “categoria”, come semplicemente vengono spesso classificati da mezzi d’informazione locale e nazionale, ma “una classe” che lotta per i loro diritti.

Comprendo che sia difficile accettare di essere tornati, grazie a scellerate leggi imposte anche e soprattutto dal Centro Sinistra, agli anni 50′ ma, altro modo non è possibile chiamare chi, pur provenendo da luoghi diversi del mondo, ha in comune la medesima rivendicazione: la richiesta di essere rispettati nel diritto del lavoro e di avere una vita degna per loro e per i loro figli.

Non è certo un caso se proprio la maggior parte di questi lavoratori imputati, che hanno contestato un sistema bestiale di sfruttamento, sono immigrati. Una categoria certamente più ricattabile ad accettare situazioni di sfruttamento anche a volte a norma di legge.

Un ricatto facilmente ottenibile, grazie ad una pessima legge sull’immigrazione che condanna il cittadino straniero a diventare clandestino nel momento in cui perde il posto di lavoro e ad un precariato diffuso e per nulla tutelante, presente in altri settori produttivi del nostro paese. Una situazione che indirettamente li obbliga, senza in realtà nessuna possibilità di scelta, anche ad accettare caporalato, pagamenti in nero saltuari ed anche la firma di documenti dal contenuto incomprensibile, che li rende “prestanomi” e presidenti di cooperative, responsabili anche penalmente del suo operato.

Lunedì sarebbe stata la giornata della pubblica accusa avanzata dal Pubblico Ministero Dr. Claudia Natalini. In prima fila erano schierati, come duranti i picchetti, tutti gli agenti di polizia pronti a testimoniare i fatti avvenuti di quei giorni. Azioni e reazioni a cui, grazie ad una operazione massmediatica, non è stato permesso di essere collocate nel contesto in cui si sono svolte. Ciò che invece è necessario fare.

Quegli scioperi rivendicativi del 2016
Tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017, numerosi scioperi sostenuti dai lavoratori SI COBAS per rivendicare il riconoscimento dei propri diritti, erano finiti in scontri con la polizia che voleva a tutti i costi impedire i picchetti rivendicativi, di fronte ai cancelli della Alcar Uno e Global Carni, e il blocco delle merci in entrata ed uscita dallo stabilimento. Gli stessi atti di resistenza, che in quelle occasioni, come in altre manifestazioni rivendicative, hanno portato i lavoratori a sedere sul banco degli imputati con l’accusa di violenza, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione del traffico etc.

Dopo mesi di stallo della trattativa, a causa del rifiuto dell’azienda di riconoscere pari diritti ai lavoratori assunti in appalto di manodopera, in un incontro la Polizia filmò, in accordo con i dirigenti Alcar Uno, un passaggio di denaro, da Levoni al consulente sindacale Danilo Piccinini. Questo episodio ha consentito alle forze dell’ordine di accusare Aldo Milani, portavoce nazionale SI COBAS, di aver estorto denaro ai Levoni con l’obiettivo di fermare gli scioperi in atto. Il tutto doveva apparire come una “donazione alla cassa di resistenza del sindacato”.

In questa vicenda, è proprio il ruolo del consulente di Ferrara, Danilo Piccinini, a dare un risvolto grigio alla vicenda. Infatti, ancora oggi la sua figura non è stata completamente chiarita, nonostante la sua condanna con rito abbreviato a due anni e quattro mesi per aver ricevuto in quell’occasione, proprio dal Levoni e al fianco del coordinatore SI COBAS. la busta contenente 5.000 euro.

Significative le intercettazioni “esultanti ed incastranti” del vicecommissario e dirigente della Digos di Modena Marco Barbieri sull’arresto del Milani.
«Abbiamo fatto un bingo che non ne hai idea. Per noi è una cosa pazzesca, Lorenzo. Perché adesso i SI COBAS… Come arrestare Luciano Lama ai tempi della Cgil d’oro”.
Su come sia finita poi la vicenda ne abbiamo già parlato prima.

Ma alla Alcar Uno i problemi non sono finiti
Alcuni mesi dopo, alla Alcar Uno viene scoperta dalla Guardia di Finanza una maxi evasione fiscale e contributiva, emersa in seguito alle rivendicazioni sindacali e alle denunce pubbliche rivolte ad un sistema basato sull’uso di manodopera a basso costo ottenute “di legge” grazie all’utilizzo delle cosiddette cooperative spurie.

Ovvero, un sistema basato sul versamento di somme esentasse ai lavoratori provenienti da finte cooperative ottenute anche grazie alla vendita “non fatturata” di tonnellate di prodotti alimentari. Una prassi che, in questi ultimi anni, sembra sia ormai consolidata in diverse aziende del distretto delle carni. All’inizio, qualche denuncia alle autorità competenti era stata già avanzata ma in realtà poco era emerso.

Il sistema dilagante di false cooperative di manodopera, si basa su intermediazione illecita di manodopera e applicazione di contratti di lavoro inadeguati. Questo ha facilmente consentito un’evasione fiscale e contributiva a danno dei lavoratori ed illeciti vari nella conduzione delle cooperative stesse, che di fatto, venivano gestite direttamente dalle aziende committenti. Il tutto sotto gli occhi delle autorità competenti e delle amministrazioni pubbliche che, per evitare di mettere in crisi un settore “ricco” della nostra provincia, nulla hanno fatto in merito se non addirittura promuovere la capacità degli imprenditori locali di quel settore.

Sempre per parlare della famiglia Levoni, questa aveva creato varie cooperative di manodopera: “Log-man”, gestita dai suoi famigliari; “Alba Service”, con cui lavorava e dove i soci-lavoratori venivano gestiti direttamente dalla azienda committente; “Planet”, che creava buchi milionari per l’erario grazie alla creazione di più cooperative in contemporanea. Per non parlare poi di un finanziamento pubblico per 7,6 milioni di euro, ottenuto per le “innovazioni tecnologiche” praticamente inesistenti.

Il rinvio del processo
Nonostante una situazione di sovraffollamento, come sopra descritto, anche la richiesta di rinvio del Processo è stato oggetto di discussione. Infatti, la presenza in aula della maggior parte degli 86 imputati, dei giornalisti e delle forze dell’ordine in servizio ed in testimonianza, evidenziava l’elevato rischio di contagio.

All’inizio, il Giudice Cermaria ha cercato di iniziare il processo chiedendo ai non imputati e giornalisti di uscire dall’aula, subendo però il rifiuto, per diritto pubblico della procedura, ma evidenziando anche così, l’errore della convocazione, attuata senza aver istituito tutti gli strumenti necessari a garantire l’incolumità da contagio dei presenti.
Anche lAvvocato Marina Prosperi, difensore dei lavoratori, ha avanzato la richiesta di poter svolgere in sicurezza il procedimento. Una richiesta che è stata tradotta dal Giudice Cermaria come di “rinvio del processo”. Una verbalizzazione a cui si è subito opposta la stessa Prosperi, specificando che:
“… ho chiesto di svolgere “in sicurezza” il Processo, non di rinviarlo, perchè noi abbiamo tutto l’interesse che questo procedimento venga svolto”.

La motivazione e differenza è chiara e come la stessa Prosperi ha avuto modo di argomentare durante un intervista:
Sono sedici i capi di imputazione per i picchetti svolti dal 2015-2017 presso i cancelli davanti alla Alcar Uno e nel merito, ribadiamo che il diritto di sciopero è costituzionalmente garantito e che quella attività fu lecita”.

La richiesta di svolgere in sicurezza il processo è stata poi accolta dalla Corte che a proceduto al rinvio, causa Covid, al 6 dicembre 2021.

Comprendo che questa vicenda, che si sta consumando nelle aule di tribunale di Modena, possa apparire una realtà dissociata dall’immagine che questa città vuole promuovere di se stessa ma, credo oltremodo assurdo e certamente egoistico pensare che questi lavoratori siano diversi dagli altri. O peggio, che è colpa della loro presenza se il lavoro ha subito in termini economici e di diritto, una debacle così grave in questi ultimi decenni.

Se questo sistema politico, sollecitato dalla nostra azione, non comincia ad agire in modo che gli investimenti pubblici premino le imprese che investono non solo sulla qualità del prodotto, ma anche sulla legalità del lavoro, i cittadini modenesi ed italiani, rischiano di trasformarsi da divertiti o scocciati spettatori, a mere comparse in un teatro produttivo e di vita che questa città e paese Italia si sta preparando ad offrirci.

Questo processo potrebbe essere un momento in cui tutta la città dovrebbe interrogarsi su cosa vuole per il suo futuro sviluppo ma, per fare questo, deve innanzitutto comprendere che la difesa dei diritti di questi lavoratori equivale alla difesa dei nostri diritti. E che il loro sfruttamento non è figlio di un’attraversata precaria del Mediterraneo ma di un sistema economico basato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo a cui si deve trovare una risposta immediata