L’articolo “UN GIORNO A RAFAH” è stato scritto da Medine Metin, studentessa I.T.E.S. J.Barozzi di Modena. Un racconto che volentieri pubblichiamo non solo per la qualità dello scritto, riconosciuto anche dal concorso letterario “Letteriamo 2024” organizzato dall’Istituto, ma anche perché Medine ha dichiarato di averlo scritto per “aumentare la sensibilità di tutti i miei coetanei riguardo alla delicata situazione in Gaza”.
Caro diario,
mi presento, sono Riad ho 13 anni e risiedo, per adesso, a Rafah, striscia di Gaza.
Mi dispiace averti trovato così tardi, avevo bisogno di te da tanto tempo, ma le condizioni qui sono pessime, trovare vestiti, scarpe, materiale come diari, libri e penne è molto difficile. Da tanto tempo desideravo un diario personale dove potessi dare sfogo ai miei pensieri e allenarmi a scrivere come mi aveva insegnato la maestra Amal tempo fa, ma i miei genitori al tempo non avevano le risorse per procurare del cibo a me e ai miei fratelli, figuriamoci per un diario. Ti ho trovato in mezzo alle macerie di una moschea mentre cercavo qualcosa da bruciare per riscaldarci.
Forse ti stai chiedendo perchè all’inizio ho scritto che “per adesso” abito a Rafah, il motivo è che dal disastro del 7 Ottobre è iniziato l’inferno per la mia famiglia e il resto del popolo Palestinese, siamo costretti a spostarci di continuo. In realtà il conflitto nel nostro territorio continua da molto tempo, ma io ti farò un breve riassunto di come la nostra vita sia peggiorata da quel giorno.
Sembrava una giornata come le altre, mio fratello ci aveva svegliati per il fajr, Said è il più grande di noi 3, mia mamma non riusciva a svegliarci, per lei eravamo ancora troppo piccoli e adorava ammirarci mentre dormivamo rannicchiati, ma Said è molto credente e dice che anche se siamo piccoli dobbiamo tenerci stretti alla religione, nonostante sia ormai diventata una pietra ardente da tenere in mano. Io e mia sorella maggiore Sana, che ha 16 anni, eravamo corsi a fare il abdest e nel mentre mio padre rientrava a casa con due pagnotte di helbah.
Dopo la preghiera mia madre e Sana prepararono la tela dove mangiare, non avevamo molto ma anche quel poco ci bastava: le pagnotte, un po’ di olive e del latte annacquato. Mentre consumavamo il nostro umile pasto, qualcuno iniziò a bussare bruscamente alla porta, al che mio padre preoccupato si incamminò verso la porta.
Aprendola si ritrovò davanti dei soldati Palestinesi che gli chiesero di parlare lontano da noi e mio padre li seguì. Sembrava che il tempo si fosse fermato, nelle nostre menti fluttuavano i pensieri, chissà cosa avevano da dire quei soldati a nostro padre, beh almeno erano i nostri soldati quindi mio padre non rischiava di essere rapito o arrestato. Said pregava e proprio quando era sull’orlo della porta per raggiungerli, fu mio padre ad aprire la porta prima di lui. Analizzai subito il suo volto, aveva una faccia seria e concentrata, i suoi occhi riflettevano preoccupazione ma trasmettevano determinazione e orgoglio.
Sembrava in uno stato di profonda riflessione, le sue labbra erano strette in un lieve sorriso finto dalle quali tutti aspettavamo qualche parola che potesse estinguere l’incendio dentro di noi causato dai nostri presentimenti.
Mio padre ci invitò a sederci attorno alla tela dove stavamo mangiando. Iniziò a parlare, i soldati lo avevano invitato ad unirsi a loro per il bene del nostro territorio che stavamo perdendo e per il nostro popolo soggetto ormai ad anni di ingiusta violenza. Mia mamma preoccupata gli chiese quale fosse stata la risposta di mio padre, ma lo sapevamo già tutti che se ne sarebbe andato. Ammiro mio padre, è sempre stato un uomo di parola fedele alla sua patria per la quale avrebbe dato la vita, ma il pensiero che potessi perderlo mi faceva impazzire.
Sentivo la voce dei soldati fuori dalla porta che non se ne erano andati, mio padre si alzò e con una semplice frase se ne andò “Mi dispiace, ma devo andare. Che dio vi protegga.” uscì così chiudendosi la porta alle spalle. Appena realizzai tutto ciò mi fiondai alla porta spalancandola per raggiungerlo, ma lui salì su un furgoncino e se ne andò. Provai a raggiungerlo piangendo e urlando ma alla fine mi ritrovai a terra in mezzo alla polvere lasciata dal furgoncino. Passarono giorni, nessuno di noi riusciva a superare l’addio di nostro padre.
Circa dopo una settimana Said andò in cerca di provviste, tornò molto preoccupato e disse che ce ne dovevamo subito andare da lì sennò sarebbero arrivati a prenderci tutti, mia mamma lo assecondò e gli disse che ce ne saremmo andati il giorno seguente .
Dopo la nostra misera cena ci coricammo a letto in ansia per il giorno successivo e per le parole di Said. Durante la notte acuti tonfi ci svegliarono, la terra tremava sotto di noi, nel quartiere rimbombavano i pianti e le urla. Sana piangeva, mia madre e Said pregavano e io tremavo, non riuscivo a fermarmi, il mio cervello non andava più fino a quando un altro rumoroso tonfo e un lampo di luce mi illuminò il volto. Ed è lì che pensai: è finita. Il missile aveva distrutto e incendiato una casa del quartiere; il fuoco si stava espandendo e noi avremmo dovuto andarcene subito . Mentre passavamo per il quartiere sentivamo le urla delle persone rimaste all’interno dell’incendio, i bambini che piangevano non sapendo dove andare e vedevamo gli anziani che faticavano a camminare.
Ci rifugiammo in un ospedale dove aiutavamo i feriti che arrivavano, piccoli neonati percossi sul volto, anziani rimasti senza arti e adolescenti pieni di vita a cui è stato tolto il diritto di viverla. Mentre cercavo Sana nei corridoi dell’ospedale rimasi stordito da una scena atroce, un piccolo bambino di circa 3 anni che piangeva, strillando mamma rivolto ad un corpo pallido steso a terra.
Mi travolsero uno stato di disperazione e incredulità, mi si creò un nodo in gola, la fragilità della vita mi apparve in tutta la sua crudeltà e il mio cuore si strinse in vista del bambino accanto alla mamma senza vita. La mia vista si appannò, le mie mani deboli iniziarono a tremare, tutti i rumori dell’ospedale si mutarono, il mio udito si focalizzò solo sul povero bambino. Cercai di reagire urlando disperatamente aiuto, cercando qualcuno che potesse confortare quel bambino.
Arrivarono alcuni infermieri che portarono via il bambino, mi appoggiai al muro con le mani tra i capelli e tutta la mia vita anche se breve mi passò davanti agli occhi, una vita colma di ingiustizia, una vita passata senza mai aver assaporato il gusto della libertà in un paese che non viene neanche definito come tale, dove quando nasci e cresci devi affrontare una vita che non ti appartiene, dove non puoi vivere in serenità ma con la paura che da un giorno all’altro potresti perdere la vita per un motivo del quale non sei a conoscenza nemmeno tu.
Nessuno che ci aiuta in un mondo dove si parla tanto di umanità, senza mai dimostrarla davvero. Ora però non posso continuare a scrivere, è arrivata l’ora della preghiera, continuerò domani. Ti voglio tanto bene, sei l’unico che mi capisce veramente, a domani caro diario. Forse.
Rafah, Palestina – 20 aprile 2024