La memoria dentro i campi palestinesi in Libano: il massacro di Sabra e Chatila

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30 ottobre 2017: Le parole per descrivere la situazione attuale dei Campi profughi palestinesi in Libano diventano improvvisamente insufficienti di fronte alla realtà che si presenta agli occhi di chi li visita. Dal 2002, anno dopo anno, il “Comitato per non dimenticare Sabra e Chatila” si reca in Libano per ricordare e far ricordare l’esistenza di un popolo profugo che ha perso tutto, causa l’occupazione del proprio territorio.

Non ci si abitua al degrado, alla povertà, all’ingiustizia. Sono 13 anni che vado in Libano e la situazione di vita dei profughi palestinesi peggiora sempre di più. E’ difficile andare e ritornare senza riuscire a cambiare, anche di poco, questa condizione. La questione palestinese non fa più notizia, ora ci sono altre guerre, altri problemi a cui pensare.

L’esilio dei palestinesi in Libano dura da 70 anni in seguito alla guerra d’espulsione e alla proclamazione dello Stato di Israele. I primi rifugiati (1947-1948) furono distribuiti in Campi sparsi sull’intero territorio libanese. La loro gestione fu affidata in un primo tempo alla Croce Rossa con il compito di distribuire le tende, gli aiuti alimentari ed assicurare a chi ne aveva bisogno le prime cure. Nel 1949, l’ONU creò l’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees) con l’incarico di provvedere agli aiuti, sanità, istruzione, affari sociali e lavoro dei rifugiati palestinesi. I Campi ufficiali in Libano sono 12 suddivisi tra il nord (2), Beirut (4), Sidone (2), Tiro (3), Baalbek (1) ed ospitano circa 400.000 palestinesi. Come in tutte le società, esiste anche una classe di palestinesi appartenenti ad una fascia più agiata che fino dal 1948 si installò al di fuori dei Campi nelle principali città libanesi.

La storia dei Campi passa attraverso tre fasi.

La prima intorno agli anni ’50, quando l’Unrwa avvia in quattro nuovi Campi alcuni progetti di costruzione di strade e di impianti di acqua corrente ed elettricità.

La seconda fase verso la fine degli anni ’60 quando la resistenza armata palestinese organizzò una rivolta contro le autorità libanesi ed il loro sistema repressivo. I Campi così passarono dal controllo militare libanese al controllo della resistenza. I rifugiati cominciarono a costruire case a più piani per far fronte all’incremento demografico. Una scelta obbligata perché il perimetro dei Campi era limitato e stabilito dallo stato libanese nel 1948. Un limite in vigore ancora oggi, anche se si è arrivati alla quarta generazione di profughi.

La terza fase è rappresentata dalla guerra civile 1975-1989
I Campi profughi sono coinvolti nell’escalation degli scontri subendo assedi e distruzioni. Da ricordare la distruzione del Campo di
Tell El-Zaatar, Jisr El-Basha e i massacri di Aitharoun, Hanin, Bint Jbeil, Khiam, Ausay, Adloun e finire con l’invasione israeliana nel 1982 con il massacro all’Al-Houleh Club del Campo di Burj el Chemali e quello di Sabra e Chatila. La guerra dei Campi (1985-1988) chiude questo drammatico periodo che portò alla distruzione totale o parziale di molti Campi a Beirut, Sidone e Tiro. Furono costruiti nuovi palazzi al posto delle precedenti minuscole abitazioni, senza però portare miglioramenti nelle condizioni di vita dei palestinesi.

I servizi elementari come acqua corrente, elettricità, fogne, linee telefoniche, strade asfaltate, mancano ancora oggi e poiché non è permesso di oltrepassare il limite del perimetro assegnato, l’enorme densità abitativa dovuta non solo ai primi profughi ma anche all’alto numero dei rifugiati della guerra in Siria, trova spazio alzando sempre più piani sopra le case esistenti.

I 12 Campi non sono tutti uguali, ognuno ha la propria storia. La loro differenza è data dalla posizione geografica, dalla presenza o meno di un Comitato del Campo che lo gestisce e dal numero e diverse etnie che lo vivono. In ogni modo non è un vivere normale. I vicoli sono strettissimi, contorti, bui, avvolti da una fitta ragnatela di fili elettrici mortali che si mescolano ai tubi dell’acqua. Ci sono Campi sul mare, con una florida vegetazione, con case colorate da caldi colori pastello che infondano serenità; Campi con stradine asfaltate, senza luce e senza piante, vicoli di terra battuta dove scorre una fogna a cielo aperto. Il dominatore comune è la sporcizia e le pessime condizioni igieniche causate soprattutto dal problema della raccolta dei rifiuti , non attuata per il numero totalmente insufficiente degli addetti.

I Campi sono luoghi non adatti ad una vita umana. Ambienti dove convivono persone di diverse etnie e religioni; c’è l’ateo, il laico, il disoccupato, il tossicodipendente, il venditore, l’artigiano, il medico, l’ingegnere, l’insegnante.

Nei Campi è in aumento la violenza e la diffusione della droga, un segnale di una progressiva mancanza di fiducia nel futuro nel credere che ci possano essere nuove e migliori prospettive.

Le malattie sono purtroppo presenti in tutti i Campi e sono legate per la maggior parte alla difficoltà di vita. Ipertensione, diabete, problemi cardiaci e salute dentaria, senza dimenticare l’alto numero di persone disabili, invalidi che non possono permettersi nemmeno una visita medica oltre che un intervento chirurgico.

Le persone che vivono all’interno dei Campi non hanno solo il problema legato alla salute e alla casa, ma anche quello legato alla loro sostenibilità e ai loro diritti civili e politici.

La disoccupazione è molto alta, supera il 30% e Il problema del lavoro è legato alle preclusioni dettate dal governo libanese. I palestinesi non possono accedere a nessun lavoro statale e né essere iscritti agli albi dei liberi professionisti, quindi non possono regolarmente svolgere le attività come medico, farmacista o ingegnere (sono vietate 37 professioni).

Possono quindi lavorare solo in nero, sottopagati, svolgere lavori manuali oppure aprire un piccolo negozio nel Campo in cui vivono

Cinque i Campi visitati dal Comitato “per non dimenticare Sabra e Chatila”

Sono felice di essere ancora una volta in Libano accanto ai profughi palestinesi a conferma della nostra amicizia, solidarietà e sostegno. Insieme a noi “veterani” ci sono tanti nuovi compagni di viaggio e questo è positivo. E’ molto importante vedere, sentire, respirare, toccare quello che succede per capire e poter raccontare la verità dei fatti. Sono trascorsi 35 anni dal massacro di Sabra e Chatila e nessuno è stato condannato. Le vittime viventi stanno ancora aspettando.

Tutte le volte che a qualcuno viene impedito di dire la verità sui massacri o quando il velo del silenzio copre ogni nefandezza, le vittime subiscono una seconda morte. Una morte morale.

Il massacro di Sabra e Chatila non è passato in silenzio. Giornali e televisioni di tutto il mondo ne hanno parlato. Sono stati scritti libri e scattato immagini di quei momenti. Il mondo ha reagito, è stato scosso da quella barbarie, ma è durato poco. Dopo tre/quattro anni il silenzio ha nascosto il massacro sotto una spessa coperta cancellandone la memoria. Ma non tutti però restano in silenzio. Ci sono ancora i sopravvissuti e tante persone come Stefano Chiarini, Maurizio Musolino, Kassem Aina e varie associazioni e comitati che continuano a ricordare e a chiedere al mondo il riconoscimento dei diritti per il popolo palestinese, per la loro dignità ed identità nazionale.

Il primo Campo che visitiamo è quello di di Bourj al Barajneh che si trova nei sobborghi meridionali di Beirut, vicino all’aeroporto. E’ stato istituito dalla Croce Rossa nel 1948 per i rifugiati provenienti principalmente dalla città di Acri e da villaggi vicini. Inizialmente ospitava 5000 persone. Oggi ne conta 43.000 (23.000 palestinesi 16.000 siriani- 2.000 profughi palestinesi siriani – 2.000 altre nazionalità) e sempre nel medesimo spazio di un Km quadrato.

Dopo aver visitato e posto una corona di fiori al mausoleo dei martiri del Campo, andiamo direttamente alla sede dell’Ong “Bait Atfal al Sumud”, organizzazione non governativa e non legata a nessun partito politico o gruppo religioso. Fu fondata il 12 agosto 1976, dopo il massacro di Tal al Zaatar, per offrire assistenza ed accoglienza ai bambini rimasti orfani. Oggi fornisce servizi non solo ai palestinesi rifugiati in Libano ma anche a persone in difficoltà di altre nazioni che vivono nei Campi o nelle loro vicinanze.

Per raggiungere la sede, attraversiamo velocemente il Campo, riuscendo a malapena a scattare alcune foto dove è possibile, ma è sufficiente per renderci conto dello stato catastrofico in cui si trova. Si ha l’impressione di essere dentro ad una grande gabbia coperta da una fitta rete di fili elettrici e tubi dell’acqua pericolosamente intrecciati tra loro. Stretti vicoli più o meno asfaltati percorsi da rigagnoli d’acqua, immondizia ovunque, creano un clima insalubre, ma la vita che scorre è attiva e caotica. Carretti, moto, auto, che suonano per farti spostare velocemente, negozi di qualsiasi genere, piccoli bar, presidi militari, colori, bandiere, disegni e scritte sui muri; questo è il Campo.

I problemi di Bourj al Barajneh, così come per tutti gli altri Campi, sono legati alla corrente elettrica, all’acqua, alle abitazioni, ai rifiuti, all’istruzione e alla salute.

Una responsabile del Campo ci ricorda che il massacro di Sabra e Chatila ha cambiato la situazione in cui si trovava la regione. In seguito a quei fatti, è nata la resistenza nazionale libanese.

A piccoli gruppi facciamo visita ad alcune famiglie. Arriviamo in un piccolissimo vicolo, ci troviamo davanti ad un’abitazione e cominciamo a salire strette scale di cemento grezzo. Già questo primo impatto ci fa capire che la situazione che vedremo sarà drammatica. Non so come poter definire questa una “casa”: in realtà è un rifugio per persone che si trovano in condizione di estremo disagio. Sembra ancora in costruzione, con muri, scale grezze non finite, con detriti e rifiuti ovunque. Mi affaccio da una piccola finestra e quello che vedo è impressionante…

Dopo l’uscita dell’OLP, la resistenza libanese ha continuato la sua lotta contro gli attacchi e le invasioni israeliane con ottimi risultati. Nel 2000 Israele si è dovuto ritirare dal sud del Libano; nel 2005 da Gaza e nel 2006 è stato respinto il suo tentativo di invadere il Libano. Malgrado le ingiustizie e le sofferenze, il popolo palestinese è determinato a proseguire la sua lotta per il riconoscimento del Diritto al Ritorno. “Nel Campo – prosegue la responsabile – ci sono 5 generatori di corrente, 14 pozzi artesiani e 671 tubi per il trasporto dell’acqua e 9.000 case”. Per quanto riguarda l’educazione, ci sono 4 scuole (1 elementare femminile, 1 maschile, 1 mista ed una secondaria per tutti i palestinesi). I bambini da zero a quattro anni, sono 1.429 e ci sono 150 donne incinte. Le malattie più frequenti sono il diabete (1300 casi), la pressione arteriosa e tumori (43). Il problema rifiuti, ben visibile a chiunque si aggiri per le strette vie del Campo, è diventato un problema nazionale. Per la sua raccolta ci sono solo 25 addetti, totalmente insufficienti dato l’alto numero degli abitanti del Campo.

A piccoli gruppi facciamo visita ad alcune famiglie. Arriviamo in un piccolissimo vicolo, ci troviamo davanti ad un’abitazione e cominciamo a salire strette scale di cemento grezzo. Già questo primo impatto ci fa capire che la situazione che vedremo sarà drammatica. Non so come poter definire questa una “casa”: in realtà è un rifugio per persone che si trovano in condizione di estremo disagio. Sembra ancora in costruzione, con muri, scale grezze non finite, con detriti e rifiuti ovunque. Mi affaccio da una piccola finestra e quello che vedo è impressionante…

Oltre la finestra non c’è un bel cortile con alberi e fiori, ma una discarica a cielo aperto di ogni genere di rifiuto: plastica, carta e fili elettrici. Insomma tutto quello che non serve più.

Entriamo in casa, due stanze ben pulite e sei persone: mamma, papà e quattro figli maschi. Il padre è sdraiato su un materasso, è malato, ha un ernia al disco. L’operazione costerebbe 5.000 dollari, ma a parte il costo eccessivo, non gli è stato nemmeno garantito il risultato. Si trova in questa situazione da otto mesi, Prima faceva un lavoro molto pesante, raccoglieva il ferro, portava sulle spalle fino a 70/80 chili. Anche in queste stanze, l’unica finestra si affaccia su quel panorama di rifiuti. Mahmoud di cinque anni, uno dei 4 figli, si dimostra contento della nostra visita e parla volentieri della sua scuola. Si tratta di una famiglia di rifugiati del Campo di Nared El Bared, scappati nel 2007 dopo la sua distruzione.

A Nared el Bared stavano bene, avevano un piccolo negozio di frutta e verdura, ma ora hanno perso tutto. La moglie è figlia di immigrati del 1948, mentre lui del 1967. Assomoud, conosciuta la loro situazione, sta cercando di aiutarli.

Abbiamo anche fatto visita ad una signora molto anziana sopravvissuta al massacro di Sabra e Chatila che sta ancora aspettando notizie sulla sorte dei suoi quattro figli. Non si rassegna, non si dà pace, per lei quei 35 anni non sono finiti. Soffre di cuore e, per questo, ci limitiamo ad abbracciarla e, in silenzio, con immensa tristezza e vergogna, ce ne andiamo. Usciamo e a stento ci guardiamo tra di noi incapaci di dire qualcosa. Ci sentiamo in colpa perché non abbiamo nessuna risposta da dare a quella donna. E’ sola nel suo dolore!

Abbiamo anche fatto visita ad una signora molto anziana sopravvissuta al massacro di Sabra e Chatila che sta ancora aspettando notizie sulla sorte dei suoi quattro figli. Non si rassegna, non si dà pace, per lei quei 35 anni non sono finiti. Soffre di cuore e, per questo, ci limitiamo ad abbracciarla e, in silenzio, con immensa tristezza e vergogna, ce ne andiamo. Usciamo e a stento ci guardiamo tra di noi incapaci di dire qualcosa. Ci sentiamo in colpa perché non abbiamo nessuna risposta da dare a quella donna. E’ sola nel suo dolore!

L’unica cosa positiva in tutto questo sfacelo è l’associazione Assomoud che con la sua presenza ed aiuto cerca di alleviare queste sofferenze e di non far sentire queste persone abbandonate da tutti.


Il Campo di Chatila è la rappresentazione del degrado assoluto. Sempre un chilometro quadrato per 20.000 persone, di cui solo 8.000 sono palestinesi. E’ il rifugio di tutti i poveri del mondo. Il Campo che si trova a sud di Beirut è stato fondato nel 1949 per accogliere centinaia di rifugiati provenienti dall’Alta Galilea. Era stato costruito per ospitare massimo 7/8000 persone, ma poi a causa delle tante tragedie ripetute, questo numero è aumentato vertiginosamente. Lo spazio si è così ridotto. Per ricavare nuovi alloggi, sono stati costretti a realizzare piani su piani sopra le case esistenti, alzandosi verso il cielo, perché era proibito, dallo Stato Libanese sin dal 1948, di aumentare la superficie abitativa,. Le costruzioni verticali sono quindi la risoluzione al problema “casa” specialmente dopo la decisione di vietare ai palestinesi il diritto di proprietà e di assegnare terre alternative in risposta ai vari Campi distrutti da Israele nei vari anni. Così, piano piano, sono sorti altri Campi dentro lo stesso Campo, come tante scatole una sopra l’altra.

La tragedia del 2007 della distruzione del Campo di Nared el Bared e la guerra in Siria hanno portato ancora altri rifugiati andando ad aumentare così la lunga lista di persone costrette sempre alla fuga dagli orrori. A differenza di altre nazioni, il Libano ha accolto in assoluto più rifugiati. Il popolo palestinese è con il popolo siriano e il suo governo per la loro unità.

Dopo il massacro del Campo di Tell al Zaatar (12/08/1976) sottoposto ad assedio per 52 giorni da parte dell’esercito siriano a fianco delle milizie falangiste conservatrici, è sorto a Chatila il primo centro dell’associazione Beit Atfal Assumoud. Kassem Aina ha raccolto e aiutato gli orfani, dando così inizio al grande lavoro di Assumoud.

Chatila è il Campo a cui noi tutti siamo più legati. Per le sue donne, per i suoi bambini dolci, tristi, con poche speranza, per la sua storia e resistenza. Ritornare a Chatila è un piacere e un dovere. Ci aspettano sempre, ci aprono le porte delle loro case e noi, non potendo offrire giustizia e diritti, diamo la nostra solidarietà e il nostro amore per la loro continua sofferenza. Oggi, senza più il lavoro di Stefano Chiarini e Maurizio Musolino, dobbiamo innanzitutto portare avanti il loro impegno, onorando così la loro memoria e la causa palestinese. Il ricordo di Stefano e Maurizio è sempre presente, ci accompagna in ogni momento del nostro viaggio.

Chatila oggi e il suo massacro ieri sono la testimonianza vivente di cosa è capace il sionismo.

Chatila è un Campo particolare, è il Campo del massacro del 1982, il Campo della vergogna del genere umano, il Campo dove vivono le vittime vivente con tutti i loro ricordi, il Campo che aspetta giustizia, il Campo del degrado, il Campo degli ultimi, ma anche il Campo della dignità e della resistenza. Una resistenza alla povertà e all’ingiustizia.

Jamila, una donna del Campo e dell’associazione Assumoud, ci racconta della situazione di Chatila. Il governo libanese eroga la corrente elettrica solo per un massimo di tre ore di giorno e di notte, per il resto del tempo bisogna utilizzare quattro vecchi generatori di corrente a motore che però buttano fumo direttamente dentro le case, causando seri problemi di respirazione.

Chatila non è sempre stata così. All’inizio, quando non era ancora sovraffollata, si potevano trovare su quasi tutte le finestre piccole piante, fiori, donando così un aspetto più sereno al Campo. I suoi abitanti provenivano per la maggior parte dall’Alta Galilea, una zona ricca di acqua e verde, per questo hanno provato a ricostruire un po’ l’immagine delle loro case d’origine. Ora tutto questo non c’è più. L’aumento della popolazione, il problema legato all’acqua salata che scorre dai rubinetti, la mancanza di sole, hanno modificato radicalmente il Campo, rendendolo come noi lo vediamo oggi. Un Campo dove non c’è verde, non c’è ossigeno, non ci sono luoghi dove i bambini possono giocare. Un Campo senza spazio . L’unica speranza sono le attività che Assumoud riesce a realizzare al suo interno.

La disoccupazione è un altro dei grossi problemi che abbiamo riscontrato. E’ stimata intorno al 36%, ma nella realtà dei fatti è molto più alta. Per questo motivo l’Ong Assumoud ha iniziato ad offrire ai bambini un pasto al giorno per alleviare un po’ la sofferenza di quei genitori che non hanno un lavoro. L’opera di Assumoud è rivolta principalmente ai bambini e alla famiglia, infatti uno dei loro progetti più importanti si chiama “felicità familiare”. L’asilo nido a Chatila conta 85 bambini. Sono anche organizzate lezioni di recupero per quei bambini che hanno perso mesi o anni di scuola, come per esempio i profughi siriani, lezioni di educazione sanitaria, specialmente quella rivolta ai problemi dentali, lezioni d’educazione sociale (sessuale) indirizzate ai giovani e alle famiglie e centri estivi per dare ai bambini alcuni momenti di giochi e di allegria.

Dopo questo primo incontro nella sede di Assumoud nel Campo di Chatila, usciamo per addentrarci negli stretti e numerosi vicoli che si intersecano tra di loro, per raggiungere l’abitazione di Chahira, una delle vittime viventi del massacro del 1982. Chahira ci racconta del massacro e come si è potuta salvare. E’ una delle donne che conosco da tempo ma di cui non avevo mai sentito la storia. E’ una donna la cui fierezza e determinazione tradisce la sua sofferenza mentre il suo sguardo, ripercorre i suoi tristi ricordi.

Dopo questo primo incontro nella sede di Assumoud nel Campo di Chatila, usciamo per addentrarci negli stretti e numerosi vicoli che si intersecano tra di loro, per raggiungere l’abitazione di Chahira, una delle vittime viventi del massacro del 1982. Chahira ci racconta del massacro e come si è potuta salvare. E’ una delle donne che conosco da tempo ma di cui non avevo mai sentito la storia. E’ una donna la cui fierezza e determinazione tradisce la sua sofferenza mentre il suo sguardo, ripercorre i suoi tristi ricordi.

Il 7 giugno 1982 aerei e mezzi blindati israeliani bombardano il Campo profughi di Burj el Chemali e colpiscono il centro del Al-Houleh Club dove avevano trovato rifugio donne, bambini e anziani. Le vittime sono 97, tutte uccise da bombe al fosforo.

-“La diaspora palestinese in Libano e i tempi della guerra civile” di Mariano Mingarelli

L’11 giugno viene firmato un cessate il fuoco con la Siria e l’esercito israeliano avanza senza difficoltà verso il nord. Le operazioni d’invasione sono rapide e catastrofiche. Le città di Tiro, Sidone e Beirut vengono bombardate dal cielo e dal mare. Il numero complessivo delle vittime civili è enorme: 20.000 morti, 32.000 feriti. 2.206 invalidi e 500.000 senza tetto.

Il 13 giugno Sharon raggiunge Beirut e si reca al Palazzo Presidenziale libanese sulla collina di Baabda, da dove può vedere la città assediata.

Dal 3 luglio i 500.000 abitanti di Beirut ovest sono bloccati. L’assedio dura 88 giorni.

Il 29 luglio l’OLP accetta il piano del Comitato ristretto della Lega Araba che prevede l’evacuazione dei combattenti palestinesi da Beirut ed il loro trasferimento a Tunisi.

Il 19 agosto viene accettata da Usa, Francia, Italia e Israele la proposta libanese per l’intervento di una “Forza multinazionale d’interposizione” . Il suo mandato doveva essere di un mese: dal 21 agosto al 21 settembre.

Il 23 agosto il Parlamento libanese, riunito nel settore Est controllato dai falangisti e circondato dai tank israeliani, elegge Beshir Gemayel a Presidente della Repubblica. Israele ha raggiunto il suo obiettivo. Al potere in Libano c’è l’uomo che ha armato e sostenuto per anni e che vuole portare a termine non solo il disarmo dei palestinesi, ma anche la loro presenza sul suolo del Paese del Cedri.

Tra la fine di agosto ed il 4 settembre, 15.000 combattenti e tutta la dirigenza palestinese dell’OLP abbandonano i Campi e s’imbarcano per Tunisi.

Il 9 settembre partono i marines.

L’11 settembre partono i bersaglieri italiani.

Il 13 settembre partono i francesi.

Il 12 settembre le Forze libanesi ammassano a Shweifat camion per il trasporto di truppe e bulldozer per demolire i sottostanti Campi di Sabra e Chatila. Il progetto di Gemayel sta per compiersi.

Il 14 settembre 1982 una carica di tritolo esplode nella roccaforte cristiana delle “Forze libanesi” facendo 21 morti, tra i quali Beshir Gemayel. Responsabile dell’attentato è un’appartenente al Partito social-nazionalista siriano che ha agito per vendicare la morte del padre.

Il 15 settembre le truppe israeliane invadono Beirut Ovest circondando i Campi profughi. Prima delle azioni delle forze libanesi, i soldati israeliani appartenenti al corpo “Sayyeret Maktal” setacciano i Campi ed i quartieri di Beirut alla ricerca di 120 professionisti palestinesi, medici, avvocati, insegnanti, infermieri che non erano partiti perché si credevano al sicuro per il fatto che non erano combattenti. Appena veniva identificata la persona ricercata, veniva fatta uscire da casa e abbattuta all’istante con un colpo alla nuca.

Furono assassinate 63 persone.

Il 16 settembre alle cinque di sera i miliziani libanesi penetrarono nei Campi ed ebbe inizio la mattanza.

Dal Campo di Chatila si poteva vedere il tetto dell’Ambasciata del Kuwait, sul quale Sharon guardava soddisfatto. Dopo la prima eliminazione mirata, entrano in gioco i miliziani della seconda ondata di assassini, composta dall’Esercito del Sud del Libano al comando del maggior Saad Haddad. Dopo il ritorno di questa squadra, nei vicoli e nelle case di Sabra e Chatila, per completare l’opera, scendono in Campo gli assassini di Elias Hobeika. Saranno questi a compiere le maggiori atrocità. All’inizio il massacro avviene in silenzio, usando coltelli, accette, pugnali, sventrando, sgozzando, squarciando i corpi vivi delle vittime. Ci sono tentativi di resistenza, ma il massacro continua ancora più feroce. Israele partecipa alla strage con il lancio di razzi che illuminano a giorno le vie dei Campi, fornisce armi agli assassini insieme a bevande alcoliche e razioni alimentari. Soldati e ufficiali sono presenti sulla scena e guardano compiaciuti le atrocità commesse. Inutile la descrizione di quelle atrocità.

Il 17 settembre la notizia del massacro comincia a circolare e varie ambasciate informano i loro governi.

Il 18 settembre all’alba i miliziani falangisti si ritirano. Alla fine la conta dei morti sarà di 3.000/3.500 ed i dispersi 5.000

Il 25 settembre l’ONU condanna i massacri israeliani, ma gli USA votano contro.

Il 26 settembre la Forza Multinazionale ritorna a Beirut.

Il 30 settembre viene eletto a Presidente della Repubblica del Libano il fratello Amin Gemayel. La Forza multinazionale francese e statunitense appoggia i miliziani falangisti. I fedeli di Gemayel spargono il terrore tra la popolazione civile a Beirut e nel Libano. Nasce così una resistenza che unisce i comunisti ai drusi, ai nasseriani, ai sunniti, agli sciiti di Amal.

L’8 febbraio 1983 la Commissione istituita in Israele per valutare la responsabilità del massacro, attribuisce una responsabilità personale al Primo Ministro Begin per il suo “disinteresse su tutta la questione”, a Yitzhak Rabin per la sua “mancanza di sensibilità e di attenzione” alle informazioni ricevute, a Sharon per “non aver valutato i pericoli di atti di violenza e di spargimento di sangue” da parte dei miliziani. Sharon è costretto a dimettersi ma non viene escluso dal governo.  

Chahira è profuga del 1948 e proviene da Haifa. Ricorda i tre mesi d’occupazione prima di quei terribili giorni. A metà settembre non c’era più nessuno, tutti spariti. L’OLP, la resistenza, le Forze multinazionali. Lei e la sua famiglia sono tornati alla propria casa, ma era distrutta. Qualche giorno prima del massacro, nel Campo c’erano due carri armati, uno francese l’altro italiano, per proteggerli e dare loro cibo e latte per i bambini. Ma poi se ne sono andati. Erano soli. Chahira ha visto la sua famiglia massacrata.

I miliziani hanno radunato tutti gli uomini in un vicolo vicino alla loro casa, uccidendoli subito. Sono state poi fatte uscire le donne con i bambini nella strada principale per essere condotte allo stadio dove avvenivano le esecuzioni. Chahira aveva in braccio l’ultimo figlio nato da 15 giorni, un altro attaccato alla gonna di un anno e mezzo ed il terzo una bambina di tre anni per mano. Poi è successo qualcosa d’incredibile. Si è alzata una voce che ha urlato in inglese” stop – stop – lasciateli stare” e così si è salvata. Non ha mai saputo di chi era quella voce. Alla mattina di giovedì alle sei e mezza è stata portata in una stanza pattugliata da un carro armato israeliano insieme ad altre persone di diversa nazionalità, tutta la mano d’opera non palestinese, fino alle ore 11. Poi è riuscita a scappare e si è rifugiata nell’ingresso di un palazzo distrutto, quando intorno a lei i combattimenti ancora continuavano. E’ rimasta lì per la notte. Il giorno dopo ha trovato rifugio in una scuola. Erano passati due giorni, non aveva cibo, i suoi figli avevano fame ed è uscita quindi per trovare qualcosa. Una volta fuori, la prima cosa che ha visto era un giornale con la foto di suo padre ucciso. Ha capito lì che era finita. La notizia del massacro era stata trasmessa. Il mondo sapeva. Si è diretta quindi verso Sabra, ma la Croce Rossa internazionale non l’ha fatta entrare. Doveva aspettare. Il giorno dopo ha avuto il permesso d’entrare ed è iniziata la ricerca dei propri familiari. Il riconoscimento era molto difficile, i corpi erano ormai deformati. Dopo una settimana la Croce Rossa ha iniziato a mettere i cadaveri nei sacchi di plastica nera e a seppellirli in una fossa comune. Chahira non ha voluto che i suoi familiari fossero sepolti lì perché prima quella fossa comune era un Campo da calcio. Giocare sui morti, no non poteva permetterlo. Quella fossa comune nel tempo poi è diventata una discarica a cielo aperto fino a quando Stefano Chiarini ed altri attivisti e intellettuali la trasformarono nel luogo della memoria. Chahira nel massacro ha perso 6 familiari: madre, padre, marito, sorella incinta, cognato e una cugina incinta.

Ma la vita continua, deve andare avanti. Piano piano ha ricostruito la casa e fatto crescere i suoi figli. La figlia di tre anni è sposata , si è trasferita nella vicina Sidone e ha quattro figli; il figlio, quello che all’epoca aveva un anno e mezzo, è sposato, vive in Germania e ha quattro figli; il più piccolo è rimasto a Chatila, ha un lavoro, ripara le biciclette, è sposato ed ha cinque figli.

Il massacro per lei non è una ricorrenza annuale, lo vive tutti i giorni, ha distrutto la loro vita, il loro sogno. Sua figlia doveva diventare avvocato per aiutarli nella loro causa e tornare in Palestina, ma non è stato possibile. Suo figlio minore ha dovuto iniziare a lavorare a 10 anni.

Il massacro di Sabra e Chatila è diverso, è stato un massacro dentro ad un altro massacro”, così continua Chahira, alla fine del suo racconto. Dopo tre mesi di occupazione, di uccisioni, di distruzione, erano rimasti solo civili. Perché dunque tanta violenza? Per un progetto di eliminazione totale con la complicità di tutta la diplomazia occidentale. Chahira termina dicendo che “loro possono ucciderci fisicamente, ma non possono uccidere lo spirito, la voglia di lottare, la resistenza e la dignità, noi abbiamo ragione”. Una vecchia canzone recita “da ogni strada, da ogni casa uscirà qualcuno che vi spara”. La resistenza continua e non si ferma. Chahira è risoluta quando dice che vuole il Diritto al ritorno, vuole tornare in Palestina. La speranza che non muore mai è quella di tornare in Palestina, nella sua terra rubata.

(Leggi seconda parte)