IRAQ – SHENGAL – INCONTRO CON IL POPOLO YAZIDA

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LEGGI “Makhmour un campo resistente”

Una delegazione italiana di 17 persone, composta da giornalisti, fotografi, fumettista ed attivisti dell’Associazione “Verso il Kurdistan” di Alessandria, si è recata nel Kurdistan iracheno dal 26 maggio al 3 giugno 2021 per raggiungere le località di Shengal al confine con la Siria e il campo profughi di Makhmour.

L’obiettivo del viaggio era contribuire a migliorare l’assistenza sanitaria nel distretto di Shengal, governatorato di Ninive nel nord Iraq, attraverso la realizzazione di una struttura ospedaliera per far fronte alla pandemia del Coronavirus e per la cura di altre gravi malattie. Aiuti sanitari anche per il campo profughi di Makhmour rivolti ai bambini affetti da sindrome di down e di altre gravi malattie dell’Hevi Center. Un’occasione per approfondire e conoscere, attraverso una testimonianza diretta, la realtà di questa area praticamente dimenticata dal mondo e dall’informazione occidentale.

Arrivare a Shengal si presenta subito estremamente difficile.
Due giorni di viaggio nel nord Iraq da Erbil, a Sulaimaniyah, Kirkuk, Mosul, attraversando vari posti di blocco controllati da differenti fazioni che si contendono il territorio: militari iracheni, Peshmerga di Barzani, milizie turcomanne e milizie sciite finanziate dall’Iran “Hashd al-Shaabi” che impediscono l’accesso a queste zone. Il tempo di fermo per i controlli, a volte è stato di pochi minuti, altre volte ore. Non c’è nulla di più frustrante, arrivati quasi a destinazione e dover tornare indietro al punto di partenza.

Il paesaggio davanti ai nostri occhi muta al procedere delle nostre vetture tra le varie località che attraversiamo: distese desertiche dai caldi colori del grano, colline sabbiose, zone verdeggianti e frammenti di vita.

Attraversiamo Mosul, seconda città per numero di abitanti dell’Iraq, che mostra ancora i segni dell’occupazione (2014/2017) dello Stato Islamico che l’aveva eretta a sua capitale.
Questa città ha dovuto pagare un prezzo molto alto per la sua liberazione. Le vittime stimate per la battaglia di Mosul sono state almeno 40.000.

Nel checkpoint di Tal Afar a circa 10 km dopo Mosul e a soli 52 km a est da Shengal, nella zona controllata dalle milizie turcomanne e sciite, abbiamo subito il fermo più lungo e illegale di tutto il viaggio: quattro ore, a 40 gradi sotto un sole rovente.
Tal Afar, una volta è stata una città importante. Menzionata anche dai primi geografi arabi, ha una storia di conflitti senza fine, soprattutto in questi ultimi anni.

  • Dopo la caduta dell’Impero ottomano, fu inclusa nell’Iraq.

  • Alla fine del 2011, dopo il ritiro delle truppe americane inizia un’insurrezione con conseguente conflitto violento con il governo centrale. Gruppi militari sunniti contro la popolazione a maggioranza sciita.

  • Nel 2013 la rivolta, da parte dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, si intensifica su vasta scala con la conquista di Ramadi, Fallujah, Mosul, Tikrit e altre città.

  • L’Isis il 16 giugno 2014, dopo una battaglia di due giorni, occupa Tal Afar.

  • Il 31 agosto 2017 le forze irachene riescono a riconquistare tutte le aree nel distretto di Tal Afar controllate dall’Isis.

Tal Afar con la sua posizione geografica è una città importante per il federalismo iracheno. Grazie al programma di arabizzazione, avviato da Saddam Hussein negli anni ‘70, molti arabi sunniti furono trasferiti in queste aree. Questa regione è infatti un’area di confine che separa le terre curde a nord e le terre arabe a sud nel governatorato di Al Anbar.

 Dopo le 4 ore d’attesa, ci chiedono di consegnare anche i telefoni e ci scortano al Centro Army. In caserma, il comandante turcomanno ci comunica che, nonostante tutti i nostri documenti siano in regola, non possiamo proseguire. Il nostro visto sul passaporto emesso dall’Ambasciata dell’Iraq a Roma è valido, secondo le sue regole, solo se si passa da Baghdad e non da Erbil. Morale, ci viene contestato la mancanza di un lasciapassare per poter entrare in Shengal. Infine ci chiede anche, di firmare un documento in arabo, nel quale ci impegniamo a rispettare queste normative. Per poter riavere i passaporti ed i telefoni, siamo costretti a firmare tutti, in caso contrario, nessuno sarebbe stato rilasciato. Siamo stati così costretti a dover rientrare nel territorio del governo regionale.(Foto di Lucrezia Lo Bianco)

L’Iraq è ormai una federazione e ogni città o distretto ha le sue regole e autonomia che non vuole perdere, a partire dal non riconoscere nemmeno le possibili aperture del governo centrale.

Il terzo giorno ripartiamo per Shengal. Stessa strada: Erbil – Mosul – Shengal, ma questa volta ci accompagnano due funzionari del governo iracheno. Nessun problema. Passiamo ad ogni check point di controllo senza difficoltà.
Arriviamo a Shengal attraverso una pianura arida dove non piove da un anno. Pochi campi di grano e alberi, greggi e case distrutte. Presso il villaggio di Hirdan, che incontriamo lungo la strada, si trova una delle oltre 100 fosse comuni finora scoperte con più di 120 resti umani. Conseguenza delle azioni criminali dell’Isis.
Proseguendo lungo una strada ai cui lati sono affissi le immagini dei martiri, a destra le donne e a sinistra gli uomini, arriviamo al villaggio di Khana Sor, alla Casa d’accoglienza che aspetta il nostro arrivo.

Il villaggio e il nuovo parco civico.

Il Popolo Yazida
Nella piana di Ninive, del nord-ovest dell’Iraq, a Shengal, vicino al confine siriano, vive la più grande comunità del popolo degli Yazidi. Un popolo ricco di storia ma poco conosciuto, anche se da secoli arricchiscono il mondo variegato culturale e religioso del Medio Oriente. Vivono qui da centinaia di anni dopo aver sopportato invasori, conquistatori e colonizzatori che si sono succeduti dai persiani ai britannici passando dai turchi ottomani. Sono una minoranza religiosa curda irachena che vive per lo più tra l’Iraq, Turchia e Iran, con comunità presenti anche in Armenia e Georgia.

Gli yazidi sono un’etnia curda che parla la lingua Kurmanji, anche se in alcune zone la lingua principale è l’arabo, mentre il curdo è usato nella pratica religiosa.
La religione professata è quella yazida, praticata nel mondo da non più di 700.000 fedeli. Sono monoteisti, ma sull’origine del loro culto ci sono varie tesi. Quella più accreditata è che lo yazidismo sarebbe la fusione di dottrine di diversa origine: la religione zoroastriana, il cristianesimo e l’islam.

Uno dei più grandi intellettuali yazidi, Mamu Farhad Othman, intervistato a Dohuk da Simone Zoppellaro autore del libro “Il genocidio degli Yazidi”, racconta: Lo yazidismo è da considerarsi uno fra i più antichi monoteismi. Esso è più di una filosofia di vita. Non siamo da annoverare fra le religioni abramitiche, ma siamo l’antica e originaria fede di tutti i curdi..I nostri testi sacri sono redatti da uomini santi: non diciamo che derivano da Dio, come il Corano. Questi affrontano la vita e l’intensità delle relazioni umane, e investono tutti i temi dell’esistenza: la morte, la nascita, il paradiso, il vizio e la virtù. Nella nostra religione non abbiamo un Dio che sia responsabile per i vizi. Crediamo che vizio e virtù derivino da un unico Dio.”

Le sue origini si possono collocare nel XII secolo, quando il teologo Sufi Shaikh Adi b.Musafir iniziò la formazione di una nuova fede con le proprie tradizioni.

Secondo la tradizione, Dio avrebbe affidato il mondo a sette angeli, tra i quali figura l’angelo ribelle Melek Taus (l’Angelo Pavone) che si pente, viene perdonato da Dio e assume poi le sembianze di un pavone. La sua adorazione però è stata interpretata e considerata un culto satanico. Ed è per questo, che gli yazidi, sono considerati “adoratori di satana”, e come tali sono discriminati, emarginati e perseguitati.
Gli yazidi credono nel paradiso e nella reincarnazione. Lo yazidismo si basa su due libri: il Libro Nero e il Libro della Rivelazione, ma non sono libri sacri. Questa religione non fa nessun tipo di proselitismo, né permette qualsiasi forma di conversione. Si è yazida per diritto di nascita. Il credo ed i riti e le cerimonie sono tramandati oralmente per secoli.

La società prevede la divisione in tre classi principali: i sacerdoti (sheikh), gli anziani (pir) e i discepoli (murid). Le prime due sono naturalmente le più influenti e vi si appartiene solo per via ereditaria. Le figure più importanti sono il leader religioso (Baba Sheikh) e il Principe (Mir). Queste figure hanno poi imposto alcune regole molto rigide. Per esempio, il divieto di sposarsi tra persone che praticano una diversa religione, pena l’espulsione immediata dalla comunità.

Nella seconda metà del XIX secolo, gli yazidi erano una comunità etnica e religiosa ben distinta, ma non erano riconosciuti come parte delle “Genti del Libro” (ebrei, cristiani e musulmani) e la loro condizione non era definita dall’amministrazione ottomana, per cui occupavano lo stato più basso della società.
Nel 1885 gli ottomani obbligarono gli yazidi a pagare le tasse come i musulmani e la comunità che risiedeva nella regione di Shengal decise di ribellarsi. I centri di Shengal, Lalish e Sheikhan furono invasi, gli abitanti costretti a convertirsi all’Islam e massacrati (1892). Il sacro tempio di Lalish, cuore spirituale della religione yazida, venne trasformato in una scuola coranica, cercando così di disperdere ogni traccia di questa fede.
Alla fine del XIX secolo con la regione di Shengal pacificata, gli yazidi poterono tornare a praticare così la propria religione.

Nel 1921 entrano a far parte dell’Iraq, governatorato dal mandato britannico, diventando parte della comunità curda, ufficialmente poi riconosciuta nel 1931 dal governo iracheno.
Nel XX secolo, hanno subito aggressioni nello Stato nazionale iracheno sia in era monarchica che repubblicana. Saddam Hussein aveva poi inserito gli yazidi nella sua strategia di arabizzazione del paese, con la conseguente deportazione di curdi e yazidi dall’Iraq settentrionale, facendo occupare i loro territori dagli arabi. Tra il 1987 e il 1988 venne poi attuata un’azione sistematica di deportazione degli yazidi dalle loro case verso il Jebel Sinjar, con l’obiettivo di ripopolare le zone con abitanti arabi.

Le radici della comunità yazida si trovano quindi nel nord-ovest del Kurdistan iracheno nella regione di Sheikhan e in Shengal, vicino al confine siriano, seconda roccaforte della cultura yazida. Shengal è un territorio ricco di risorse naturali e, per questo, è conteso tra iracheni e curdi.
E’ il susseguirsi di queste violenze che ha dato inizio alla diaspora della comunità verso l’Europa, in particolare in Germania, dove ancora oggi si trovano circa 165.000 yazidi. Diaspora che mette in pericolo la loro cultura e tradizione. Più ci si allontana dai luoghi natii e dalle tutele dei capi religiosi, maggiore è il rischio di scomparire definitivamente.

Gli Yazidi affermano di aver subito nel tempo 73 genocidi, che arrivano a 74 con quello perpetrato nell’agosto 2014 dai miliziani dell’Isis. E’ stato stimato che nei 700 anni in cui si ha notizia dell’esistenza di questa comunità, il numero dei morti per motivi religiosi abbia raggiunto la cifra di 23 milioni di persone. Purtroppo anche la storia recente di questa comunità è, ancora una volta, una storia di discriminazione, sopraffazione e violenza.

IL GENOCIDIO DEL 2014
La caduta di Saddam Hussein nel 2003 e l’invasione americana in Iraq porta un grande vuoto di potere, d’insicurezza e di violenza. Il grande malcontento della popolazione genera così un aumento di gruppi di matrice religiosa con l’intento di colmare il vuoto sociale e politico che si è creato, trovando bersagli facili per ottenere consensi. Gli yazidi, insieme ad altre minoranze, come quelle cristiane, subirono, molto prima quindi dell’ascesa dello Stato islamico, quel clima di risentimento e intolleranza.
Nel contesto del dopo Saddam, gli attacchi contro gli yazidi erano così già iniziati. La regione di Shengal precipitò così nel caos più totale. Caos che continua ancora oggi. Non è mai stata infatti realmente affrontata la questione delle minoranze, rimaste quindi irrisolte, alimentando solo odio, conflitti e risentimenti.

A questo proposito, un doloroso fatto di cronaca diventa l’esempio di come sia stato così facile accendere la miccia delle faziosità. Si tratta del caso di una giovane ragazza yazida di 17 anni che nel 2007 venne lapidata e uccisa a calci da parenti e amici a Bashika solo perché, sembra, volesse sposare un ragazzo sunnita andando contro le regole della sua religione e del volere della famiglia. Un “delitto d’onore” filmato da un telefonino e diffuso su internet. Poco dopo la reazione: una milizia armata sunnita ferma un pullman in viaggio da Mosul a Bashika e, dopo aver selezionato le persone secondo la propria religione, uccide 23 yazidi.

Pochi mesi dall’omicidio della ragazza yazida, un grave grande atto terroristico avrebbe dovuto essere interpretato come preavviso di quello che sarebbe poi successo anni dopo, ma nessuno lo valutò con la dovuta attenzione.
Il 14 agosto 2007, quattro veicoli carichi di 2 tonnellate di esplosivo colpiscono i villaggi yazidi di Qahtaniya e Tal Uzair. Uno di questi veicoli era un camion cisterna pieno di carburante. Fu uno degli attentati più sanguinosi del M.O. Si parla di diverse centinaia di morti, forse quasi mille, e oltre 1500 feriti.

Il clima di violenza poi si intensifica con l’ascesa dell’Isis. Il giornalista e scrittore Patrick Cockburn ha scritto: Mentre Iraq e Siria si avvicinavano al punto della disgregazione, le diverse comunità presenti in quei paesi, sciiti, sunniti, curdi, alauiti e cristiani, si sono trovate a dover combattere per la propria sopravvivenza. Spietato nel pretendere un’adesione incondizionata alla propria visione settaria e fanatica dell’Islam, l’Isis ha ucciso o costretto alla fuga tutti quelli che considerava “apostati” oppure che semplicemente si opponevano al suo potere”.

3 agosto 2014 è un giorno maledetto non solo per gli yezidi, ma per il mondo intero.

La parola ‘genocidio’ coniata dal giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, è stata usata per la prima volta per il dramma degli armeni nel 1915 e poi per la Shoah. Un termine che purtroppo però la storia ci dimostra essere stata usato altre volte, troppe volte: Cambogia, Srebrenica, Kurdistan…
l genocidio non è un momento di follia, desiderio di vendetta o paura di una sconfitta, ma è solo la volontà di soggiogare qualcuno, di voler cancellare per sempre una religione o una cultura. Anche se spesso questa motivazione viene usata come giustificazione per nascondere, come nel caso degli Yazidi e l’Isis, ragioni militari, strategiche ed economiche. La deportazione e lo sterminio degli yazidi della regione di Shengal, infatti, avrebbe permesso di avviare una ripopolazione con un’altra etnia, quella araba e sunnita più condiscendente al suo folle progetto di un nuovo califfato. Inoltre, la tratta delle ragazze yazide, vendute come schiave di piacere, ha permesso un business molto redditizio e nello stesso tempo, una ricompensa per i combattenti.

LE AZIONI DI QUEL TRAGICO GIORNO

I combattenti dell’Isis, il 3 agosto 2014, si dirigono verso Shengal che si trova solo a 15 km dal confine con la Siria. Sappiamo tutto quello che è successo dalle testimonianze che rendono reali quei giorni. Lo sappiamo dai racconti dei sopravvissuti, come chiaramente espresso da Nadia Murad nel suo libro “L’ultima ragazza”.

Uomini uccisi a migliaia a colpi di fucile, decapitati o bruciati vivi di fronte alle loro famiglie. Donne caricate su camion per deportarle ed esibire i loro corpi come trofei. Nadia lo racconta dal secondo piano della sua scuola nel villaggio di Kocho, prima di essere deportata insieme ad altre seimila persone, quasi tutte donne ma anche ragazzi e bambini. Tutto pianificato. Tutto quindi premeditato da tempo.

Durante l’attacco l’Isis ha anche distrutto 19 santuari religiosi. I miliziani non hanno incontrato resistenza. I peshmerga curdi si sono subito ritirati lasciando quindi la popolazione inerme in balia della violenza. Coloro che sono riusciti invece a fuggire sul monte Sinjar sono subito stati poi assediati dall’Isis. La loro fuga, purtroppo, non è stata una fuga verso la salvezza, ma tutt’altro. Migliaia di uomini, donne, bambini intrappolati in un luogo dove la temperatura supera i 50 gradi senza acqua, cibo e assistenza medica.

Il presidente degli Stati Uniti Obama, su richiesta del governo iracheno, annuncia un’azione militare in difesa degli yazidi assediati. Forze americane, irachene, inglesi, francesi e australiane con aerei ed elicotteri cercano così di lanciare gli aiuti necessari alla loro salvezza. Purtroppo, centinaia di yazidi trovano la morte prima che il Pkk e le unità curde siriane del Rojava siano in grado di aprire un corridoio dalla Siria al Monte Sinjar in tutta sicurezza. Secondo i dati riportati da uno studio pubblicato sulla rivista medica “Plos Medicine”, sono morti circa 3.100 yazidi ed altri 6.800 sono stati invece rapiti. Di questi, ci sono ancora circa 2.870 persone scomparse mai ritornate a casa.

Le parole di Nadia sono eloquenti:
Non mi ero resa conto di quanto fosse piccolo il nostro villaggio finché non vidi l’intera popolazione di Kocho radunata nel cortile della scuola. Eravamo accalcati sull’erba secca. Alcuni sussurravano tra loro chiedendosi cosa stesse succedendo. Altri erano in silenzio, sotto choc. Nessuno aveva ancora capito cosa ci aspettava. Da quel momento, ogni mio pensiero e ogni mia azione furono un’invocazione a Dio. I militanti ci puntarono contro le armi. “donne e bambini al piano di sopra” gridarono. “Gli uomini restano qui”. Stavano ancora cercando di mantenerci calmi. “Se non vorrete convertirvi vi lasceremo andare alla montagna” dissero, così salimmo al piano di sopra come ci avevano ordinato, senza quasi salutare gli uomini rimasti in cortile. Se avessimo saputo cosa stava realmente per capitare loro, credo che nessuna donna avrebbe mai abbandonato il figlio o il marito… alcuni militari cominciarono a girare per la stanza reggendo grandi sacchi e ci ordinarono di consegnare cellulari, gioielli e soldi, allora tutte rovistammo nelle borse che avevamo preparato prima di lasciare la casa e gettammo i nostri averi nei sacchi aperti, spaventate a morte. Nascondemmo il possibile… I militanti, in ogni caso, riempirono tre grandi sacchi con i nostri soldi, cellulari, fedi nuziali, orologi, documenti e tessere annonarie rilasciati dallo Stato…Ogni cosa intorno a me svanì: i pianti delle donne, i passi pesanti dei militanti, il sole intenso del pomeriggio, perfino l’afa sembrò dissolversi mentre guardavo i miei fratelli che venivano caricati sui furgoni, Massoud nell’angolo e Elias in fondo. I portelli si chiusero e i camion si allontanarono dietro la scuola. Un attimo dopo sentimmo gli spari.”

(fonti: Il caffè geopolitico/ Libro “Il genocidio degli Yazidi”di S.Zoppellaro/ Amnesty International/ Report Ass.ne Verso il Kurdistan/ Insideover)

(Reportage fotografico di Mirca Garuti)

continua…2° PARTE