Le guerre non finiscono mai, ma cambiano aspetto. Nella Prima Guerra Mondiale le perdite civili erano il 10%, nella Seconda sono arrivate a superare il 50% e negli anni ‘90, l’80% . Questo perché nell’ultimo secolo la guerra è diventata totale. La guerra totale non è più combattuta prevalentemente tra eserciti, ma tra un gruppo politico, sociale o etnico. La posta in gioco è la sopravvivenza fisica e il dominio di un solo gruppo. Il fine è lo stermino totale del nemico e le donne e i bambini diventano veri e propri obiettivi di guerra.
Nelle guerre etniche, la donna è identificata come “nemica”e pericolosa, non solo perché donna del nemico, ma anche come generatrice di futuri avversari. Sono stuprate perché considerate un legittimo bottino di guerra. Lo stupro, nelle guerre del passato, serviva ai soldati al fronte per soddisfare i loro bisogni sessuali, oggi invece, costituisce una delle armi a disposizione dei combattenti per annientare l’etnia nemica. Lo stupro nei conflitti moderni, non è da considerarsi come “un incidente di guerra” ma al contrario, dev’essere condannato e combattuto.
Il 23 aprile 2019 l’Onu ha approvato una risoluzione per combattere l’uso dello stupro come “arma di guerra.” Sembra una buona notizia, ma in realtà, per i veti posti da Stati Uniti, Russia e Cina, il documento finale risulta essere molto impoverito di contenuti. E’ stato infatti tolto ogni riferimento sull’assistenza alla “salute riproduttiva”, che costituiva il sostegno all’aborto per le vittime di violenza sessuale in guerra. A quella riunione hanno partecipato, oltre al ministro degli esteri tedesco H.Maas, il segretario generale dell’Onu A.Guterres, i premi Nobel per la Pace 2018, Nadia Murad e Denis Mutwege. Nadia è una delle 6.700 e più donne yazide fatte prigioniere in Iraq, torturate e violentate dagli uomini dell’Isis.
Il segretario generale Guterres ha poi spiegato che: ”Dobbiamo riconoscere che lo stupro in guerra colpisce in larga misura le donne perché è collegato a questioni più ampie come la discriminazione di genere”. Ha incoraggiato quindi il Consiglio di Sicurezza a “lavorare insieme per superare le differenze; la risposta globale deve garantire la punizione degli autori e il sostegno completo ai sopravvissuti”. La Vice Presidente della Fondazione Pangea Onlus, Simona Lanzoni sostiene che questa risoluzione: “delegittima le istituzioni internazionali che lavorano per la pace e la giustizia, come la Corte penale internazionale alla quale Stati Uniti, Cina e Russia non hanno aderito.”
Il genocidio di migliaia di donne e ragazze yazide
L’obiettivo del nostro viaggio in Iraq è proprio quello di conoscere la realtà della regione di Shengal, dopo il genocidio subito nel 2014 da migliaia di donne e ragazze yazide, da parte dell’Isis. Sono state rapite e vendute come schiave sessuali ai mercati di Raqqa e Mosul (ad un prezzo tra i 5 e 20 $), mentre uomini, vecchi e ragazzi sono stati trucidati e sotterrati in fosse comuni. Anche i bambini sono stati oggetto di loschi traffici. Molti sono stati venduti per pochi dollari a trafficanti arabi, mentre altri venivano indottrinati per aumentare così le milizie di Isis.
Suham Shengali, portavoce del movimento delle donne di Shengal, alla Casa d’accoglienza, afferma che, a differenza dei passati genocidi rimasti nell’ombra, quello del 2014 è stato subito appreso in tutto il mondo. Ma com’è cambiata la donna, rispetto al passato?
Tutto comincia nel 2015, sulle montagne di Shengal. Da subito si sono organizzate, creando l’Assemblea delle donne. Il loro principio ideologico è: “una donna che resiste ed esiste”.
Il loro primo insegnamento per non essere più una vittima rispetto al passato è pianificare l’autodifesa ed un’auto-organizzazione. E’ la donna che deve poter decidere come vivere la propria vita. Inizia così una Rivoluzione con l’obiettivo di rivendicare i propri diritti. La donna può ora decidere d’intraprendere anche un lavoro o interessarsi di politica e temi sociali, non essendo più obbligata ad occuparsi solo della sua famiglia. Naturalmente, non tutti gli uomini hanno subito accettato questo cambiamento. Cambiare una società non è semplice, occorre molto tempo, specialmente se sono società patriarcali consolidate nel tempo. E per fare questo si deve innanzitutto credere in un’ideologia, come per esempio quella insegnata da Ocalan che afferma: “finché non si libera la donna, la società non sarà mai libera”.
Suham afferma ancora: “Quando sono arrivate qui le HPG (Forza di difesa del popolo) e YJA (Unità Donne Libere), ala militare del Pkk e poi successivamente anche le Unità di protezione popolare del Rojava (Ypg e Ypj) a combattere contro l’Isis, non solo hanno salvato fisicamente il nostro popolo, ma sono riuscite anche a restituirgli la sensazione di essere di nuovo umani.”
Quando gli individui infatti cominciano a conoscere se stessi ed a usare la loro intelligenza emotiva, saranno anche padroni dei propri pensieri, emozioni e scelte che la vita li obbligherà a prendere. Saranno inoltre in grado di riconoscere e capire i propri limiti ed i punti di forza da utilizzare con la calma necessaria per superare i problemi che si presenteranno. Questo è infatti, solo l’inizio di un percorso di consapevolezza dei propri diritti.
La priorità oggi degli yazidi, di fronte al pericolo di eventuali altri genocidi, è quello della propria protezione, ed è per questo, che uomini e donne devono restare uniti anche in combattimento.
Il Movimento di libertà delle donne yazide (Taje)
Costituito dopo il massacro dell’Isis, per dare dignità e speranza dopo il dramma subito, ha il compito di fare formazione. Si organizzano corsi d’apprendimento per avviare le donne nel mondo del lavoro, a relazionarsi con il maschio, alle pratiche di autodifesa, ad affrontare la violenza subita e, soprattutto, a sostenere e reintegrare quelle donne che si trovano in situazioni difficili e complicate. Anche per le donne non è facile accettare questi cambiamenti. Rifiutano qualsiasi aiuto sia le più anziane, rimaste legate alle tradizioni, come quelle che hanno subito questo trauma che non riescono a superare.
Taje lavora per far comprendere a tutta la comunità il valore della libertà e democrazia, ossia il valore del Confederalismo Democratico. Lo fanno scendendo in piazza, per la strada, parlando anche di fronte a delle telecamere, cercando così di raggiungere il più alto numero di consensi.
Il movimento, in pratica, ha un duplice compito: il primo, verso la donna che deve ritornare ad una vita normale dopo quello che ha vissuto e il secondo, verso la società che la deve accogliere senza nessun pregiudizio. Per questo cercano di non isolare la donna, ma di farla pian piano partecipare alla vita sociale, dandole compiti o ruoli da svolgere. Purtroppo però, non tutte le donne sono state riaccolte dalle famiglie, dopo questi avvenimenti, perché ancora troppo legate alle tradizioni. Soprattutto religiose.
Oltre 6 mila donne e bambini sono stati presi in ostaggio e sottoposte a tortura ogni giorno dall’Isis.
E’ inimmaginabile pensare al dramma di queste donne. Qualsiasi mente umana non può immaginare cosa debba essere stato aver subito tanta brutalità. Niente e nessuno potrà mai fargli dimenticare quei momenti. Per questo il Movimento Taje è importantissimo. Il loro lavoro richiede molta delicatezza, dolcezza ma anche fermezza. Quando le Ypg e Ypj hanno salvato le donne, le hanno subito affidate nelle mani di Taje, con il compito poi di riportarle alle proprie famiglie. Alcune volte però queste ricongiunzioni sono state intercettate dai Peshmerga di Barzani, con il solo scopo di accreditarsi, per fini propagandistici, il merito di averle salvate.
L’entità esatta relativa a questo genocidio è ancora da stabilire. Riusciamo però a sapere, sempre da Taje, che mancano ancora 1.117 donne. La violenza subita può generare diversi comportamenti. A volte, ad esempio, le donne che, hanno avuto figli dallo stupro, provano una tale vergogna da preferire non tornare in famiglia, mentre altre, rifiutano i figli, abbandonandoli. Questi bambini saranno poi accolti in vari orfanotrofi in Rojava.
Prima del massacro, le donne si occupavano solo della casa, ora invece, grazie al Movimento, si dedicano al sociale e alla politica, portando avanti i loro diritti ed autonomia.
Visita al cimitero dei martiri
Il cimitero dei martiri, Shahid Lak, si trova sul monte Sinjar, dopo aver percorso 99 tornanti tra zone aride e diversi accampamenti. File di tombe bianche, alcune con le kefiah strette tra le lapidi, testimoniano il sacrificio di uomini e donne per difendere la propria libertà. Sulle lapidi ci sono il nome del martire, la data di nascita, il luogo e la data dove è stato ucciso. Al centro del cimitero si trova la tomba di Zeki Sengali, il fondatore del Pkk a Shengal, ucciso il 15 agosto 2018 da un drone turco. Incontriamo qui alcuni rappresentanti dell’associazione dei famigliari dei martiri.
Bakia, mamma di Bahwer (che incontreremo anche alla Casa delle donne alcuni giorni dopo) si presenta così: “sono la mamma di un martire, mio figlio è caduto nella difesa di Shengal. Insieme a lui è stato anche ucciso un suo amico, per questo, sono la mamma di due martiri. Noi siamo sulla nostra terra, chiediamo aiuti a tutti gli stati, a tutte le persone che vogliono sostenerci. Tutto il mondo sa quello che è successo. L’Iraq vuole occupare la nostra terra e sconfiggere la nostra forza. Forza (autodifesa) che è nata nel sangue. Siamo stati aiutati solo dai militanti di Ocalan. Da tre mesi siamo isolati, non possiamo andare fuori da questa zona per qualsiasi motivo, pena l’arresto”.
Le parole di Bakia esprimono tutta la preoccupazione del suo popolo. Sono stati violati e tanti sono morti o sono ancora dispersi. Si sono difesi e non vogliono perdere quello che hanno creato dopo tanti sacrifici.
E’ in corso un conflitto contro Shengal. Gli attori in campo sono la Turchia, il governo centrale iracheno e quello regionale del Kurdistan.
Il 9 ottobre scorso, infatti, c’è stato l’Accordo tra Erbil (governo regionale) e Baghdad (governo centrale), in coordinamento con le Nazioni Unite in Iraq (UNAMI), che riguarda proprio la regione di Shengal. Per le N.U. è un accordo positivo verso un “futuro migliore”, perché può migliorare la ricostruzione della regione e rafforzare le relazioni tra Erbil e Baghdad. Shengal è sempre stata un’area contesa tra le parti. Nonostante la sconfitta dell’Isis, la regione continua ad essere instabile proprio per questi motivi.
Questo accordo è stato siglato senza aver sentito, anche in minima parte, il parere degli abitanti di Shengal. Loro hanno subito le violenze, il massacro, si sono salvati da soli con le Unità di difesa del Popolo, ma, sono rimasti esclusi dalle trattative che riguardano il loro stesso futuro. L’accordo siglato dovrebbe, sempre per le Nazioni Unite, far prevalere gli interessi della popolazione, consentendo il ritorno degli abitanti alle loro abitazioni, migliorare i servizi pubblici ed accelerare la ricostruzione. L’accordo prevede la scelta di una nuova amministrazione locale per il distretto di Shengal, mentre la sicurezza verrebbe affidata alle forze locali con un ampliamento di 2.500 nuove unità e l’allontanamento di fazioni esterne. Il riferimento è rivolto al Pkk , la cui presenza non è ben vista da Erbil. Quello che infatti Bakia vuole dire è che la Turchia vuole completare il genocidio, non necessariamente con l’uccisione di tutti, ma con l’intento di creare paura spingendo così la popolazione ad andarsene dal territorio. Se consideriamo che la religione yazida non è conosciuta a livello internazionale e che in Germania, come in Italia, i curdi yazidi non sono conosciuti come tali ma solo come curdi, l’abbandono del loro territorio, significherebbe la perdita anche della loro identità. Un modo quindi, usato solo per cancellare un intero popolo.
Visita alla città vecchia di Shengal dopo la distruzione
Le immagini in questo caso rendono di più delle parole. Le parole sono superflue davanti ad un panorama come quello che si presenta ai nostri occhi quando scendiamo dalle auto a Shengal City.
Distruzione, solo distruzione. Case sventrate, tetti sfondati, rottami di auto, tondini di ferro liberati dal cemento, chiese riconoscibili solo da una croce, lamiere e macerie. Solo macerie che ricoprono quelle che un tempo erano strade. A volte si riesce anche ad intravedere qualche oggetto conosciuto: un rivestimento di piastrelle, una sedia, un volante, un materasso, una pubblicità su un muro. Questa è la faccia della guerra vissuta strada per strada. Vicolo per vicolo. La città distrutta riesce, in un solo sguardo, a raffigurare tutta la malvagità di Isis, e di quello che gli yazidi hanno subito. Per questo, non può essere ricostruita. Deve restare così, come testimonianza di questo orrore.
Prima dell’occupazione di Isis vi abitavano circa 100 mila persone, mentre in tutta l’area erano circa 500.000. Oggi, questo numero si è dimezzato anche a causa della grande difficoltà, da parte dei suoi abitanti, di poter ritornare dai vari campi profughi dove avevano trovato un rifugio sicuro.
Villaggio di Girzerik
Prima dell’arrivo di Isis, Girzerik era una città di 25.000 abitanti. Ora questo è un villaggio abbandonato, un villaggio fantasma, perfetto scenario cinematografico per un set di guerra e desolazione. Ma, purtroppo, questo non è una finzione. Qui, dopo una resistenza durata ore, i suoi abitanti si sono arresi. Sono stati uccisi uomini, rapite le donne e seppellito 74 persone in una fossa comune non ancora aperta.
La vegetazione si è fatta strada invadendo la terra, le case, le strade abbandonate, mentre la guerra ha lasciato il segno del suo passaggio, sulle case distrutte, sui pochi muri lasciati in piedi, sui negozi con i vetri rotti e su tutto quello che è stato frettolosamente abbandonato in fuga per salvarsi la vita. Abiti, scarpe, oggetti vari non sono più riconoscibili.
La zona è ancora piena di mine lasciate dall’Isis. Ad oggi, nessuno però è intervenuto per mettere in sicurezza il villaggio. Girzerik è stato occupato da Isis fino alla liberazione di Shengal City, nel novembre 2015. Quello che oggi resta è solo un silenzio spettrale che avvolge l’intero villaggio sotto un sole cocente e implacabile.
Villaggio di Tel Azeer
Tel Azeer è un villaggio nella piana di Ninive che, prima dell’arrivo dello Stato Islamico, aveva circa 16.000 abitanti. E’ un villaggio molto importante perché racchiude tutta la sofferenza, la disperazione, il dolore che hanno subito le donne yazide rapite e violentate. Qui c’era la casa-prigione dove l’Isis teneva rinchiuse le ragazze destinate ad essere vendute come schiave sessuali o date in matrimonio ai jiadisti. E’ rimasta nelle mani dell’Isis fino al 30 maggio 2017, quando sono arrivate le forze di autodifesa yazide e le milizie sciite, liberando così la zona. E’ una casa color crema ad un piano solo. L’ingresso è ormai invaso da erbacce e sterpaglia ed alcune finestre sono murate. Subito all’ingresso a destra c’è una porta di una cella ed entrando nella prima stanza si vede immediatamente un grande buco nel muro. Ci spiegano che è stato fatto dall’Isis per fuggire dalle forze curde senza essere visti. Giro per le stanze vuote. Per terra ci sono indumenti da donna, bottiglie vuote, una sedia rovesciata, stracci, posate di plastica, scatola di cartone e dal soffitto pende un filo elettrico che sembra quasi un cappio. C’è una stanza buia con una porta chiusa da una lastra di lamiera con un foro nel centro che fa passare un po’ di luce. Su un muro, una freccia rossa indicava dove era la Mecca e la direzione verso la quale le ragazze erano obbligate, pur non essendo musulmane, a pregare.
La mente scorre quei momenti, al terrore vissuto da quelle donne. Tremendo pensare di essere chiuse lì dentro, prigioniere di uomini così malvagi. Sono attimi di forte ansia e rabbia. Quelle sei stanze devono rimanere così. Intatte, perché come per la città vecchia distrutta di Shengal, sono prove di una malvagità umana senza confini.
L’autonomia di Shengal
Vicino alle macerie della vecchia città si trova la sede dell’Autonomia Democratica di Shengal creata dopo il massacro ordinato da Daesh contro gli Yezidi. La sua base è l’Assemblea Generale.
Per la sua gestione, invece è stata creata, nel 2017, l’Amministrazione con diversi comitati che si occupano della vita sociale della comunità, come ad esempio: la salute, cultura e arte, i giovani, le donne e le famiglie dei martiri.
Siamo accolti dalla Co-Presidente della municipalità che si dichiara subito molto dispiaciuta per le difficoltà che abbiamo incontrato per arrivare a Shengal e, da alcuni portavoce di questi comitati.
“L’insegnamento che abbiamo appreso dal massacro – continua – è quello che, per poterci difendere da altre eventuali incursioni, dobbiamo autogovernarci e auto difenderci. Quando è stato deciso di creare questa Autonomia, non esisteva nè un governo iracheno e né un governo kurdistan iracheno. E’ stata un’iniziativa del popolo che, rimasto senza un governo e una difesa, ha deciso di autogovernarsi per difendere ed amministrare Shengal”.
I loro obiettivi sono:
- Governare e Organizzare la loro società
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Evitare nuovi massacri
L’amministrazione, ogni mese, si riunisce con i rappresentanti dell’Assemblea Popolare per discutere e trovare le soluzioni relative alle varie richieste, bisogni, problemi emersi in quel intervallo di tempo, dai vari comitati nei quartieri. Le proposte e decisioni prese vengono poi riportate all’Assemblea generale. Le assemblee sono gestite come quelle del Royava, con il sistema del Confederalismo Democratico, sempre due Co-Presidenti, una donna e un uomo. Anche le unità di difesa hanno un loro rappresentante e rispondono all’Assemblea popolare. Per quanto riguarda coloro che non hanno un lavoro, dal momento che non c’è nessuna legge che regolamenta questa casistica, sarà la comunità stessa che se ne fa carico secondo la propria disponibilità.
“Questo è il luogo – continua la Co-Presidente – in cui si ascoltano le richieste o le idee dell’assemblea popolare di Shengal, ma anche quello in cui questa gente mette in pratica le sue proposte. Come per esempio, se si decide di organizzare una manifestazione o fare barricate contro nuove minacce, le persone sono immediatamente organizzate per prendere l’iniziativa”.
La questione centrale rimane sempre la zona di Shengal. Una zona ancora contesa, mai stata definita, tra Iraq e Kurdistan iracheno. Problema che era già stato sollevato dai rappresentanti dei famigliari dei martiri. I due contendenti vorrebbero entrambi instaurare un proprio governo in questa zona. “Noi – prosegue la Co-Presidente – li consideriamo i veri colpevoli, perché in quel periodo erano i responsabili della zona di Shengal e non hanno saputo difenderla. Continuano però a fare pressione ed a imporre la loro presenza. Il 9 di ottobre scorso, hanno fatto un Accordo, come se in questi sei anni, non ci fosse questa organizzazione creata con la volontà della popolazione. Hanno discusso tra di loro secondo i propri interessi, senza considerare la nostra opinione. Ma chi ha liberato Shengal, chi l’ha organizzata, chi ha fermato l’avanzata di Daesh, chi ha aiutato la popolazione, siamo stati noi. Avrebbero dovuto ringraziarci e, invece, hanno fatto questo accordo tra di loro, senza di noi. Questa è la nostra difficoltà maggiore. Noi vogliamo solo uno status riconosciuto per Shengal”. Conclude dicendoci “Noi non crediamo negli Stati, ma nella Democrazia dei Popoli”.
Il rappresentante delle Famiglie dei martiri afferma che, ad oggi l’autogoverno e la popolazione yazida, non sono stati riconosciuti e che il governo iracheno non ne rispetta i diritti. Si augura che le società fuori dall’Iraq si mobilitino, sostenendo non solo la causa degli yazidi, ma anche quelle che coinvolgono altre popolazioni che vivono in Iraq in queste situazioni. Ci sono ancora oltre 80 fosse comuni che aspettano di essere aperte per poter dare ad ogni martire caduto una degna sepoltura.
Il rappresentante della cultura ed anche membro del governo ricorda i giorni terribili passati in montagna, quando ancora vivevano nelle tende, in cui avevano iniziato ad organizzare i primi gruppi di formazione ed i primi corsi di musica e di cultura yezida. Lo facevano tutti insieme: la municipalità, le organizzazioni dei giovani, i comitati della salute e della cultura. Non è stato semplice, ma attraverso mille difficoltà, sono però riusciti ad arrivare a quello che sono oggi, a costruire questa Autonomia Democratica. “Speriamo solo – continua – che la nostra voce e tutto quello che abbiamo fatto venga riconosciuto, in modo da non essere distrutto, per poter avere i nostri diritti”.
Lo Stato iracheno, da sempre, non ha mai riconosciuto nella sua costituzione i diritti degli yazidi, dalla lingua, al credo, alla scrittura e allo studio. Gli yazidi vorrebbero essere riconosciuti dalle leggi irachene come, i cristiani, gli sciiti ed i sunniti.
La rappresentante dei giovani afferma che il dolore vissuto dal popolo yezida è stato ed è immenso e crede che nessun altro popolo in Iraq abbia sopportato un massacro come quello del 2014. Questa è una voce importante perché fotografa la situazione dei giovani che non riescono a vedere una soluzione positiva alla loro esistenza. Non è possibile raccontare tutto quello che è stato vissuto. Nonostante tutto il lavoro e la lotta che è stata fatta, nessuno parla di quello che succede e, questo li rende vulnerabili per altri futuri massacri.
“La lotta dei martiri – continua la giovane ragazza – è servita per riportare alla libertà le donne rapite da Daesh, ma in Bashur a Shengal ancora ci minacciano con la loro presenza, continuano a spingere Daesh verso questi luoghi, e nessuno parla. Sordi e muti. Inoltre, la Turchia minaccia ogni giorno di attaccare Shengal. Ancora silenzio. Ma spero che ora la nostra voce possa uscire da questo isolamento”.
Nella società yezida la giustizia è amministrata per piccoli reati dai loro tribunali, mentre per i casi più complessi dal tribunale di Mosul, dove è prevista anche la pena di morte.
Il primo marzo scorso, è stata approvata dal Parlamento iracheno la legge “Yazidi Female Survivors”, a favore delle yazide vittime di violenze ed uccisioni da parte degli jihadisti dello Stato islamico. Una legge promossa in Parlamento nel 2019 dal Presidente Barham Salilh, ma sempre rigettata e sottomessa a numerose revisioni. Oggi è stata formalmente approvata. Da una parte, la legge prevede supporto medico e psicologico, un’abitazione gratuita, salario mensile e diritto allo studio e al lavoro, ma dall’altra, le yazide devono affrontare il grande problema che riguarda i figli nati dalle violenze subite. La comunità yazida non accetta i figli nati da padre di religione diversa.
In questo caso specifico, per esempio, i figli nati dalla violenza di Isis, sono musulmani e la donna yazida non può crescere un figlio musulmano. Per questo, le donne sono obbligate a scegliere se ritornare nelle loro comunità oppure rimanere con i loro bambini. E’ una questione comunque molto complicata. Il Premio Nobel per la Pace, Nadia Murad ha però accolto con favore questa legge perché rappresenta, secondo il suo parere, un primo passo verso il riconoscimento del trauma della violenza sessuale subita dalle yazide ed un tentativo di rendere giustizia alle vittime di Daesh.
Incontro con il Comitato promotore della Sanità presente a Shengal
L’obiettivo dell’Associazione Verso il Kurdistan di Alessandria è quello di contribuire, con l’aiuto di altre associazioni (Fonti di Pace Milano, Arci Firenze, CgilE.R.) al miglioramento dei servizi e dell’assistenza sanitaria nel distretto di Shengal con la realizzazione di una struttura sanitaria attrezzata per far fronte alla pandemia del Covid19 e per la cura di gravi malattie.
I medici rappresentanti del Comitato, vista l’emergenza sanitaria in cui si trovava Shengal, hanno riferito che l’ospedale si trova già in fase di realizzazione e funzionante e, pensano anzi di concludere i lavori, entro il prossimo trimestre. L’associazione Verso il Kurdistan ha ribadito di mantenere il suo impegno, inviando, tramite la Mezzaluna Rossa, una prima tranche per le spese sostenute. I medici hanno poi spiegato che la necessità di anticipare l’inizio dei lavori è legata al fatto che la zona di Tel Azeer, dove è stato costruito questo nuovo punto ospedaliero ed occupata da Isis per quattro anni, è strategica proprio perché si colloca al confine con una zona araba, attualmente sprovvista di tutto e dove, la popolazione sta tornando.
L’università di medicina si trova a Mosul ma è molto difficile per i giovani medici yezida ottenere una specializzazione, per cui sono costretti ad andare in Rojava.
Per quanto riguarda la situazione pandemica, quasi nessuno usa la mascherina, perché manca una corretta informazione sulla pericolosità del virus. Informazione che non è di competenza della sanità ma dello Stato. I medici non sanno neppure con esattezza il numero dei morti per Covid. “Possiamo solo dire – continua il medico – che ogni mese ci sono almeno circa 20 decessi, ma negli ultimi due mesi la situazione è peggiorata. La pandemia qui è arrivata più tardi. L’80% delle morti ha coinvolto gli anziani. Purtroppo abbiamo a disposizione limitate quantità d’ossigeno e non riusciamo a mettere in pratica la respirazione artificiale. Per quanto riguarda, invece, le vaccinazioni sono una libera scelta. La popolazione però non si fida, perché in passato sono morti alcuni bambini proprio in conseguenza a delle vaccinazioni. Manca una reale e corretta informazione. Anche noi non siamo obbligati. E’ obbligatorio solo per chi lavora in altre città”.
Al termine della nostra visita, consegniamo un migliaio di mascherine donate dalla Staffetta sanitaria romana.
Lasciamo l’ospedale e andiamo a vedere la nuova struttura realizzata su un piano con 11 stanze compreso laboratori di analisi.
Proseguiamo poi verso un luogo dove un tempo, prima della guerra, c’era un vecchio ospedale. Si tratta di una zona arida, abbandonata, dove è stata oggetto d’incursione da parte di Isis. Quest’area potrebbe essere bonificata e l’ospedale ristrutturato con un altro possibile progetto.
La Casa delle Donne: un luogo di tristi ricordi
La tristezza dei ricordi traspare dai volti delle quattro donne che sono sedute di fronte a noi nel giardino della Casa delle Donne. E’ sempre difficile chiedere di raccontare il proprio dolore, ma solo così è possibile riuscire a rendere quel dolore collettivo, farlo diventare così un po’ meno doloroso. La storia di queste quattro donne appartenenti al movimento Taje, sono un esempio di come sia possibile uscire dalla propria solitudine, lavorando insieme per superare il trauma della violenza e delle perdite subite. In questo modo si sentono utili alla comunità, onorando anche il ricordo dei loro figli.
Bakia, mamma di Bahwer: “Siamo qui per la causa, per i nostri figli, per il nostro popolo”. L’attività del movimento Taje è iniziata nel 2015. Qui arrivano molte donne – continua – non so dire quante, i numeri non sono importanti, noi aiutiamo tutte le donne che ci chiedono aiuto, non ha importanza da dove vengano o quale sia la loro religione”. Bakia racconta poi di quei terribili momenti: ”All’arrivo dell’Isis nel 2014 siamo subito scappati verso il Kurdistan iracheno, ma mio figlio Bahwer, mostrandoci la sua foto sul cellulare, è voluto tornare indietro per combattere e, purtroppo, ha trovato la morte. Aveva solo 20anni, era il quinto di 10 figli, lavorava e studiava, era il più educato. Ora è diventato un martire”.
Lejla, mamma di Agith: “9 figli, l’ultimo è andato a combattere in Rojava nel 2019, dove è rimasto ucciso. Quando la Turchia è entrata in questa città in Siria ci sono stati molti morti e non sanno quindi dove sia il suo corpo. Non ha nessuna notizia. Le milizie hanno preso i corpi dei caduti, anche prelevandoli dai cimiteri e li hanno poi messi su una strada lungo i marciapiedi, in bella vista, come fossero trofei di guerra. Un altro aspetto della brutalità di queste bande: il disprezzo verso i morti, incuranti del valore della vita altrui.”
Suriak, mamma di Mansur: “Aveva 18 anni. Ho perso tre figli. I primi due sono andati a combattere e non sono più tornati. Non so come e dove sono morti. Il terzo studiava, gli piaceva divertirsi, ma nel 2015 anche lui è andato a combattere contro l’Isis a Shengal, anche con la speranza di trovare i suoi fratelli, ma è morto.”
Nujrak, mamma di Esdì. La sua testimonianza è stata molto sofferta. Non riusciva a trattenere le lacrime. Non è certo facile rivivere quei momenti, ma è doveroso, perché raccontare serve a non dimenticare. “9 persone della mia famiglia sono state uccise. Mio figlio, quando è arrivato l’Isis, si era sposato da poco. Siamo tutti scappati. Mio figlio invece ha combattuto ed è morto. Mia figlia era incinta e quando ha avuto il bambino gli ha messo il nome del fratello. Così quando lo chiamo, penso sempre a mio figlio. Il bambino non ha mai conosciuto il suo papà. E il dolore si rinnova”.
Bakia precisa, al termine del nostro incontro, che non sa quantificare i numeri di questa tragedia, lei sa solo che ha perso 19 persone della sua famiglia, tra rapiti e uccisi dall’Isis, di cui tre si trovano nelle fosse comuni. Lei sa in quale fossa si trovano i suoi famigliari, ma nessuno fa niente per recuperare i loro corpi.
Il desiderio di queste donne forti e determinate è la diffusione di tutto quello che abbiamo visto e sentito. “Basta crimini contro di noi – dice Bakia – questa vostra visita non deve essere solo di cortesia ma deve essere anche un messaggio di solidarietà e di conoscenza. Abbiamo bisogno del vostro sostegno. Noi non possiamo accettare protezione da uno stato che è scappato prima di noi!”
Arrivati quasi alla fine dell’incontro, ci viene chiesto, con molta angoscia, di presentare una petizione al governo iracheno per aprire le fosse comuni per poter così riavere i corpi dei loro congiunti, prima che sia troppo tardi.
Le Forze di sicurezza Yezide
Un portavoce delle forze di sicurezza afferma che la loro comunità è ancora in pericolo.
Il rischio di attacchi sono su tre livelli: interno, regionale e internazionale.
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Interno: le forze di sicurezza yezide si sono organizzate ed hanno liberato le città. Lo stato iracheno e le altre presenze politiche in Iraq, quindi, hanno perso il controllo del territorio.
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Regionale: lo Stato turco dichiara continuamente di voler attaccare Shengal. Questo rischio però prosegue nel tempo, infatti, dei 74 massacri che gli yezidi hanno subito, molti sono di matrice turca.
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Internazionale: Shengal è una zona contesa per il controllo della regione da tante forze internazionali, come America, Iran e Israele. Un alleato di tutte queste forze che minacciano Shengal è il clan di Barzani.
Un esempio chiaro è la situazione ad Afrin, dove c’è una grande comunità yezida. Queste forze hanno attaccato la comunità e c’è in corso un grande cambiamento demografico. Sono stati distrutti quartieri, cambiato nome alle città, creando un sistema come quello di Daesh, ma di natura turca. Sono stati portati ad Afrin islamisti radicali e famiglie di etnia turca al posto di quelle curde yezide. Ad Afrin, inoltre, sono stati rapiti 400/500 yezidi e, in questo momento, non si hanno notizie di circa 3500 persone rapite in tutta la regione.
“Un altro esempio è l’Accordo del 9 ottobre scorso. Questo accordo non è utile agli interessi del popolo yezida, ma lo è per il clan Barzani, per la Turchia e, a livello internazionale, per l’America. E’ stato fatto sulla nostra pelle – continua il portavoce delle forze di difesa – all’interno della comunità yezida ci sono intellettuali, persone che sono in grado di analizzare, decidere, condividere con la comunità stessa le idee e le necessità. Ci sono anche le forze di difesa che hanno liberato la regione. Sono stati raggiunti traguardi e questo accordo significa chiudere, distruggere tutto quello che è stato fatto”.
Per impedire una tragedia come questa, è fondamentale un’organizzazione e, le forze di difesa, YJS e YBS, l’hanno dimostrato contro Daesh. In questa battaglia hanno perso 380 combattenti e il cimitero dei martiri, ne è una prova. Eliminare queste forze di difesa significa solo aprire la strada ad altri massacri.
La rivoluzione del Rojava, inoltre, ha rappresentato anche per il popolo yezida, un esempio, un punto di riferimento per prendere ispirazione, come è successo per tutte le forze rivoluzionarie nel mondo. La formazione delle Ybs e Yjs non è stata costruita a tavolino, ma direttamente su campo.”Gli yezidi si sono trovati all’interno di un genocidio ed i giovani si sono attivati per difendersi, sono nate così le unità di difesa – prosegue – oggi, dopo un lungo periodo di formazione, abbiamo raggiunto un livello professionale, sia uomini che donne, assumendo anche ruoli di comando. All’inizio della guerra siamo stati anche aiutati dall’esperienza delle Ypg e Ypj, arrivate qui per aiutarci. Fino al 2017 abbiamo combattuto insieme una guerra frontale per liberare Shengal e i villaggi vicini. Ora questa nostra forza deve essere considerata importante per tutta la comunità”.
Le Ybs sono una forza per proteggere la terra dell’Iraq. Il loro obiettivo è la difesa del territorio. Hanno inoltre relazioni con tutte le forze del Bashur, tranne che con il partito Kdp di Barzani, in quanto è proprio il Kdp la causa che ha generato il genocidio del 2014. Barzani ha sempre usato gli yezidi solo per i suoi giochi di potere senza mai considerarli come un popolo in grado di esprimere una propria realtà ed autonomia.
Anche l’Onu purtroppo non ha fatto quello che avrebbe dovuto fare nel suo ruolo di difesa dell’umanità, anche per il fatto che appoggia l’Accordo del 9 ottobre.
Le Ybs e Yjs sono una forza militare, quindi soggette ad una gerarchia ma le unità maschili e femminili sono organizzate nello stesso modo, unica differenza è che quelle femminili hanno una loro autonomia.
All’interno dell’organizzazione di Ybs, c’è quindi un Alto Comando femminile e le donne possono riunirsi e prendere alcune decisioni senza condividerle con gli uomini. Il Comando generale della forza mista è formato da 9 membri, maschili e femminili.
“Quando c’è un attacco, il primo obiettivo – racconta una compagna delle Yjs – è sempre contro le donne. Le combattenti, quindi, assumono un ruolo particolare all’interno delle forze di difesa, hanno una volontà autonoma nel modo di combattere e nella strategia dettata dalla necessità di difendersi dalla brutalità dello scontro. Le donne appartenenti a Yjs hanno partecipato a tutte le operazioni contro Daesh. Un esempio è quello relativo alla decisione di andare a combattere nel 2016 a Raqqa contro Daesh per vendicare le donne rapite e violentate. Un altro esempio della forza della determinazione della donna è quello che ha coinvolto la nostra comandante quando è stata liberata dalle mani di Daesh. Dopo tutto il dolore sofferto, una volta liberata ha subito combattuto contro il nemico. L’autodifesa diventa anche la reazione ad una ferita psicologica e fisica causata da quanto subito”.
Il collegamento con il Rojava, oggi è interrotto. Attraverso una Porta di passaggio, in meno di mezz’ora, lo si poteva raggiungere. Ora questa Porta è stata chiusa e oltre ad essersi interrotti i rapporti fra le autonomie, le forze militari e gli aiuti materiali, sono cessati anche i rapporti tra gli abitanti yezidi.
Si può tranquillamente dichiarare che Shengal si trova, di fatto, quasi sotto embargo. “Abbiamo chiesto più volte – continua il portavoce delle forze di difesa – di aprire questa porta, ma finora non è successo. Questa Porta è come un simbolo, tra Shengal e Rojava, un simbolo di unione e solidarietà. Quando avevamo bisogno di aiuti, come per esempio portare dei feriti all’ospedale, potevamo facilmente passare ed arrivare dall’altra parte”.
Le mani potenti e distruttive su quei territori
Shengal, dal 2014 ad oggi, non ha nessuna relazione con la Russia. La Turchia, invece, rimane un pericolo reale, non solo per Shengal, ma per tutta la regione, visto il suo sogno di ricreare un nuovo impero ottomano. Con l’America, il loro rapporto è avvenuto solo attraverso la Coalizione anti Isis, per il coordinamento delle operazioni contro Daesh.
Le unità di difesa di Shengal erano la forza sul campo, mentre le forze aeree erano quelle degli USA. Al termine di queste operazioni militari, le relazioni si sono interrotte e non c’è stato più nessun aiuto, né dialogo sia da parte dell’America che dalla Coalizione stessa.
Per quanto riguarda le Ybs e Yjs, la loro partecipazione alle unità di difesa è stata una necessità della società; “Io quando facevo parte delle Ybs, nel 2014 – prosegue il portavoce – andavo all’università e, in quel momento, uomini e donne hanno sentito il dovere di partecipare alla difesa della loro terra contro chi ci stava attaccando. Senza un organizzazione difensiva non è possibile sopravvivere”.
“Nel 2014, ero una studentessa – parla così Heza, la compagna liberata da Daesh, – quando è iniziato il massacro. Le donne sono sempre il primo obiettivo, sono state rapite, violentate, uccise come molti bambini, vecchi e uomini. Le donne sono quelle che hanno patito di più, sono state portate in tanti luoghi diversi nei mercati per la vendita con una enorme sofferenza. Quando le donne sono state liberate e, io in particolare, quando sono stata liberata, ho sentito la mia coscienza che mi spingeva a vendicare tutto quello che era successo. Dovevo fare qualcosa. C’erano ancora tante donne prigioniere. Dovevo prendere un’arma e combattere per liberarle”.
Heza, inoltre racconta come è stata catturata: “quando è iniziato l’attacco di Daesh, io mi trovavo nel mio villaggio a Duguri, qui a Shengal. Siamo scappati. Volevamo uscire dal villaggio, ma siamo rimasti bloccati per molto tempo dai Peshmerga. Quando poi abbiamo cercato di uscire e di raggiungere la montagna, ci siamo trovati davanti Daesh e così mi hanno catturata”.
Ancora una volta, nel ringraziarci per la nostra presenza, ripongono in noi la speranza di riuscire a comunicare in modo serio, attraverso una corretta informazione, quello che è accaduto e in quale situazione oggi si trovano. Auspicano di vedere uno sviluppo positivo nell’informazione che, ha sempre più perso il suo valore etico. Un’informazione che si allontana sempre più dalla verità, da quello che succede nella realtà. “Purtroppo è capitato che – termina così il portavoce delle forze di difesa – abbiamo avuto, in passato altri incontri e, poi di vedere che quello che veniva riportato non era quello che era stato detto e non rispecchiava il significato delle nostre parole”.
(fonti:Amnesty International/ Verso il Kurdistan Alessandria/ Il Manifesto/Opinio Juris/)
Reportage fotografico di Mirca Garuti