PREMIO CHIARINI: 40ANNI DA CHATILA E 74 DALLA NAKBA

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Anche la 13° edizione del Premio internazionale Stefano Chiarini di Modena ha avuto la necessità di ricordare la Nakba e al tempo stesso denunciare l’uccisione di Shireen Abu Akleh giornalista palestinese colpita a morte il 10 maggio nel campo profughi di Jenin in Cisgiordania. Un colpo secco alla testa. Appena sopra la scritta “Press” e nell’unico punto lasciato libero tra le protezioni anti-proiettile. Uccisa mentre svolgeva il suo lavoro di reporter. I suoi cecchini hanno mirato all’orecchio, con l’intenzione di ucciderla. Israele nega ogni responsabilità e sostiene che è stata colpita dai palestinesi. La macchina della loro propaganda ha cercato di coprire queste falsità e nonostante le tante prove presentate, ha utilizzato il pretesto della non consegna del proiettile da parte delle autorità palestinesi, per decidere di non aprire neanche una commissione d’inchiesta. La sua uccisione è un crimine contro la libertà di stampa e soprattutto d’informazione non allineata. Lo testimonia l’ultimo suo messaggio alle 6.13 alla redazione di Ramallah: “Le forze di occupazione stanno assediando Jenin e una casa nel quartiere di Jabriyat. Vi darò notizie quando la situazione si farà chiara, sto andando lì”.

La data, 14 maggio, scelta per svolgere il Premio Stefano Chiarini, non è stata un caso ma la precisa volontà di svolgere questo evento per ricordare insieme, dopo due anni trascorsi tra mille difficoltà, la Nakba. Anni di covid19, amari, dolorosi e sofferti, che spesso ci hanno divisi.

La Nakba, catastrofe, disastro
E’ il termine usato dai palestinesi per indicare l’insieme degli eventi che hanno determinato la loro dispersione e la creazione dello Stato di Israele in terra di Palestina. L’inizio della diaspora palestinese, sin da subito obiettivo dei sionisti, che con il motto “il massimo della terra con il minimo possibile di arabi”, utilizzarono tutti gli strumenti possibili per attuare quell’azione. E non a caso, il ‘48 fu dipinto come eroico dagli storici israeliani, mentre l’esodo palestinese fu taciuto o riportato come una fuga volontaria.
Oggi si contano nel mondo circa 8 milioni di profughi.

Una cosa è certa: il modello Palestina, trascinato sino ad oggi, ci fa comprendere come l’occupazione di un territorio, una narrazione dell’altro come “nemico assoluto e terrorista” e l’utilizzo di armamenti tecnologici avanzati, possono generare una situazione di guerra infinita con l’obiettivo finale di eliminare l’altro solo dopo averlo sfruttato, dominato e umiliato.

Non pensavamo di certo oggi di trovarci di nuovo in un rischioso conflitto nei pressi dell’Europa. Siamo, quindi, precipitati in una crisi profonda, pericolosa, una crisi sotto tutti gli aspetti, economica e sociale, ma, nonostante tutto, sappiamo che nel mondo, ci sono molte altre guerre e violazioni dei diritti umani di ogni genere. Purtroppo però, queste guerre non hanno quasi mai suscitato interesse, soprattutto perché considerate lontane dal nostro orizzonte e dai nostri interessi personali.

Questa volta però è diverso. Sembra, nella sua meschinità, che il mondo abbia scoperto solo ora la brutalità della guerra e tutte le sue conseguenze. Noi, ma più di tutti i palestinesi, conosciamo cosa significa un’invasione, un’occupazione, la violenza e l’umiliazione. E’ quello che, ogni giorno, da più di 70 anni, prova sulla propria pelle quel popolo.

Il centro del problema rimane comunque e sempre, l’occupazione militare.
L’occupazione è negazione della vita, pulizia etnica, soprusi, privazioni, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo qualcosa di… indefinito. Per questo, il movimento palestinese è un movimento di liberazione nazionale, ed è per questo che, il suo popolo, ha diritto di esistere e di resistere all’oppressione israeliana.

Il metodo politico dell’occupazione è quello di soffocare la popolazione:
Viviamo in una realtà in cui più gli israeliani respirano, più i palestinesi soffocano” queste sono le parole di Samah Jabr, in una scena del film tratto dal suo libro “Dietro i Fronti”.

Non c’è pace tra gli ulivi” è una frase che spesso diceva mia nonna. Forse per indicare un luogo dove dovrebbe persistere il silenzio e la pace, mentre in realtà, vi regna solo il disaccordo e la violenza.

Non c’è pace tra i pochi ulivi rimasti a Gerusalemme”, scrive Paola Caridi nel suo ultimo libro “Gerusalemme senza Dio-Ritratto di una città crudele”, così come ce lo dimostrano gli atti di violenza accaduti, durante il mese del Ramadan. Quest’anno, come ogni anno, si commettono abusi con il solo scopo di radicalizzare la situazione e spingerla sempre più nell’angolo dello scontro religioso, anziché politico. Una vita senza pace, creata con il preciso obiettivo di cacciare i palestinesi da questa terra e giustificare ogni atto di repressione. (v. video “Israele terra di Palestina“)

Il Paese dei Cedri
Ma la pace non c’è neppure tra i palestinesi che vivono nei campi profughi in altri paesi arabi, come per esempio in Libano, dove noi come Associazione Per non dimenticare, operiamo da molti anni.

Il Libano, vive ormai da alcuni anni una grande crisi economica dalla quale non sembra essere in grado di uscirne. L’inizio delle proteste popolari sono datate il 17 ottobre 2019, anche se il Libano, in realtà, si trova in bancarotta da marzo 2019 con un’inflazione che ha raggiunto il 90%/100% del suo valore. Le banche hanno imposto controlli sui prelievi e trasferimenti per proteggere le riserve estere in calo.

La difficoltà di questi ultimi mesi, raccontata anche nel nostro video: Catastrofe Libanese, si è presentata anche quando dovevamo inviare al nostro referente in Libano Kassem Aina, Presidente della Ong palestinese Assomoud, quanto raccolto dopo la sua richiesta d’aiuto. Enorme difficoltà anche solo per riuscire ad effettuare il trasferimento di valuta tra banche.

In Libano, purtroppo, la disoccupazione e l’inflazione sono alle stelle e la vita dei libanesi e dei rifugiati è diventata insostenibile. Il tasso di povertà è raddoppiato e quello di estrema povertà triplicato. Dopo 79 anni dall’indipendenza del Libano (1943) il popolo è stanco del loro attuale sistema parlamentare.

In tutto ciò, all’inizio del 2020, si è inserita anche la pandemia Covid19 che qui è difficilmente controllabile. Da febbraio 2020 a gennaio 2021, secondo dati ufficiali, in Libano ci sono stati 286.000 casi di Covid19 con 2500 morti.
I profughi palestinesi, soprattutto per la loro situazione economica, tendono a trascurare le misure di sicurezza per proteggersi dal virus, dando priorità a trovare cibo per le proprie famiglie, anziché restare a casa in isolamento o acquistare prodotti disinfettanti.

La catastrofe libanese
In questo caos, un’altra grande catastrofe si è poi abbattuta sul Libano.
Il 4 agosto 2020 una grande esplosione al porto di Beirut, ha devastato un terzo della capitale libanese.
Il bilancio delle vittime, da ultimo conteggio che risale al 19 aprile scorso, con la morte di Rami, un uomo di 48 anni, padre di due bambine, dopo una lunga agonia in ospedale, sale a 243 vittime. Tra le 243 persone, 239 sono state identificate, mentre rimangono ancora senza nome tre donne e un uomo.

L’esplosione ha provocato anche oltre 6.500 feriti, molti dei quali menomati a vita. 330 mila persone hanno dovuto abbandonare le loro case. Le indagini relative all’esplosione per accertare la responsabilità dell’accaduto, sono di fatto bloccate dalle misure giudiziarie messe in atto dai politici al potere. Questo ha provocato di nuovo, la mobilitazione dei cittadini contro la corruzione, la cattiva gestione politica e il disegno di legge sul controllo dei capitali.

Il Fondo Monetario Internazionale e le prossime elezioni
Il Libano ha annunciato, il mese scorso, la firma di un accordo siglato con il Fondo monetario internazionale per un piano di aiuti di tre miliardi di dollari per far uscire il paese da questa grande crisi. Una cifra irrisoria se si guarda il volume degli aiuti che avrebbe bisogno il paese, ma è un primo passo che può aprire poi la strada ad altri finanziamenti oltre a quelli provenienti da paesi amici. Quest’accordo però dipende dall’applicazione di un pacchetto di riforme essenziali che deve essere approvato dal parlamento, quindi da tutta la classe politica. Molti sono scettici che questo accada, visto il sistema politico libanese nella sua forma attuale, dove normalmente, le risorse, sottratte allo Stato, vengono ridistribuite ai sostenitori, alle comunità religiose, alle clientele dei propri partiti.

Il contesto, che ha portato alle elezioni, è stato molto drammatico e anche il risultato non ha di fatto cambiato gli scenari politici attuali. Purtroppo non sfonda il movimento di contestazione per cambiare i rapporti di forza all’interno del Parlamento. Anche perché ,i rappresentanti di questa nuova corrente non sono riusciti ad allearsi sotto un’unica lista. Infatti, delle 103 liste registrate per il voto, almeno una trentina fanno parte di questa tendenza. Dall’altra, mentre il partito religioso Hezbollah riduce la sua rappresentanza, il partito dei Sunniti filo Sauditi, hanno perso anche il loro punto di riferimento.

Questa crisi è peggio della guerra – dichiara un vecchio commerciante al settimanale Internazionale del 8 aprile scorso – Durante la guerra i soldi circolavano, e quando si smise di combattere erano poche le attività che avevano chiuso definitivamente. Tra uno scontro e l’altro, Hamra era viva”.
Oggi, invece, i negozi chiudono a causa delle difficoltà economiche. Quelli che invece continuano a rimanere aperti sono i cambiavalute, anzi, negli ultimi sei mesi sono stati aperti tre nuovi uffici di cambio.

Se questa è la situazione in cui si trova il Libano, le condizioni nei campi profughi e dei palestinesi sono ancora più disastrose. I rifugiati chiusi nei campi sono così del tutto privi di speranza e di prospettive. Per una parte di loro, la violenza, a volte domestica o politica, può diventare la valvola di sfogo. I giovani si rifugiano nelle droghe o aderiscono a fazioni armate e gruppi radicali. Quando manca tutto, specialmente i beni di prima necessità, come il pane, il riso o qualche litro di benzina, il comportamento delle persone cambia, si diventa litigiosi per qualsiasi cosa. E’ l’istinto della sopravvivenza.

E’ anche per questo che è sempre più importante promuovere eventi che ricordano i diritti di questo popolo. Un azione volta anche a sensibilizzare le persone a non chiudere gli occhi di fronte a queste situazioni che perdurano da oltre 70 anni e che non accennano a migliorare. Anzi è esattamente il contrario.

Non bisogna abbassare la guardia e, quando è possibile, occorre informare senza filtri. Il che significa portare la voce delle persone che questa situazione l’hanno vissuta e la continua a vivere sulla propria pelle.

I campi profughi sono lì dal ‘48, non sono invisibili, ma sembra che tutti se li siano dimenticati. Da qui la nostra voce di condanna per tutte le atrocità ed i massacri attuati dai vari governi israeliani che si sono susseguiti, per la continua occupazione delle terre e per la negazione del “Diritto al Ritorno”.

Ricordare i 40 anni dalla Strage di Sabra e Chatila
Nessuna Corte di giustizia, purtroppo, ha mai condannato i responsabili di queste politiche e di questi crimini. Come fu per il massacro di Sabra e Chatila (16 settembre 1982) che durante questa edizione non solo ha dato il titolo all’evento ma era necessario ricordare.

Sono passati ben 40 anni da quei giorni maledetti, 40 anni di sofferenza per un popolo e di impunità per un altro. Questo massacro rappresenta ancora l’emblema di uno dei nodi politici più drammatici e mai superati. Quando a qualcuno viene impedito di dire la verità su crimini come questo, i sopravvissuti subiscono una seconda morte, una morte morale. Per questo, noi speriamo di riuscire a tornare a settembre in Libano nei campi profughi per essere al loro fianco nel ricordare questa grande tragedia.

Per tutti questi motivi, noi siamo e saremo sempre al fianco del popolo palestinese.