“Ubiquità” di Maria Grazia Gagliardi pubblicato da Supernova, presentato presso la libreria UBIK di Modena, ha permesso ai presenti di poter dialogare ed ascoltare alcuni scritti letti direttamente dall’autrice presente in sala.
Ubiquità, tratta molti temi interessanti, importanti scritti, in modo scorrevole e pulito, che conducono il lettore con fare descrittivo e poetico, in un mondo non solo fiabesco, ma anche ironico. Insomma, 150 belle pagine!
In Ubiquità, nasce il desiderio di essere anche da un’altra parte. In un mondo virtuale; essere dentro un’altra epoca, per provare a capire il mondo di oggi.
Ubiquità ti mette di fronte a tanti perché, a tante domande sulle scelte che ognuno di noi fa nella propria vita, su come, per esempio, abbiamo barattato la nostra libertà.
Il romanzo, racconta la storia di due amiche, Assunta, per gli amici Pupas e quella di Lara, la voce narrante.
Diverse per storia personale, il carattere, i sogni… la loro storia parte dall’infanzia, passando dall’adolescenza fino ad arrivare all’età adulta e attraversando gli anni ‘70/’90, con tutti i suoi contesti politici.
Pupas, una ragazzina che praticamente non ha quasi mai vissuto con entrambi i genitori, che vive con una nonna bigotta, malefica, incapace di amare quelle che rappresentano il sesso femminile, mentre invece diventa un’altra persona, disponibile, solo quando arriva il figlio maschio, il padre di Pupas, chiamato il “Signor padre”. Un padre mai presente.
Pupas, infatti, resta sempre in attesa, sia del ritorno di questo padre assente e incapace di tenerezze, ignorante, ricco ed intelligente, come dell’appuntamento settimanale con la madre, vanitosa ed egoista e per nulla preoccupata, neppure quando la figlia scompare.
Il “signor padre”, rappresenta il fulcro patriarcale su cui ruotava il sistema famiglia di quell’epoca, dove l’emancipazione femminile comincia un percorso molto difficile e lungo, che non si è ancora concluso. Anzi, al contrario, siamo ancora molto lontane. Lo vediamo tutti i giorni.
Per esempio, in un capoverso del libro, la mamma di Pupas dice:
“Si va a scuola per imparare un mestiere. Tu sei femmina, diventerai una donna molto carina e troverai un marito che ti manterrà: speriamo sia ricco. Comunque è bene che tu abbia un diploma…andrai a ragioneria”
Una frase che si sentiva spesso negli anni ‘70 . Pensare di ascoltare il parere o i desideri delle ragazze, era qualcosa di impensabile. Il lavoro adatto alle donne era solo o la segretaria o la maestra.
Non è facile cambiare il modo di pensare. Oggi abbiamo bisogno di tornare ad educare la società a ritrovare non solo i valori del rispetto alla persona ma anche procedere in avanti per migliorare la condizione delle donne. Senza questo, non sarà possibile migliorare la condizione generale di tutte e tutti.
A seguire il tema dell’emancipazione, troviamo quello del divorzio.
In Italia è entrato in vigore il 1 dicembre 1970. Prima di questa data, le donne sopportavano situazioni tremende. La maggioranza si adattava all’infelicità, altre ne facevano invece una vera e propria malattia fino ad arrivare ad ammalarsi anche in modo grave. Sino all’esaurimento nervoso che, nei casi più gravi, le poteva portare all’essere rinchiuse in cliniche psichiatriche.
Le più coraggiose, in cambio della propria libertà, decidevano spesso di accettare, perché costrette, la rinuncia di ogni pretesa sui figli, sulla casa e sui propri beni.
In quel periodo, dunque, l’altra parola associata spesso a quella del divorzio, era: Libertà.
“Libertà di scegliere, di andarsene e di amare”.
Non a caso Pupas, grazie al divorzio, decide di andare a vivere con la madre, chiedendole appunto di divorziare dal padre.
Tra lo scorrere delle righe di Ubiquità, si incontra Pupas con un grande vuoto dentro che cerca di riempire con il sogno di curiosare il mondo, di volare via verso un’altra dimensione, per poi però ritornare al sicuro nella sua cameretta.
Si rifugiava spesso, nella fantasia della favola di Pari Banù, la fata principessa che viveva in un paese lontano. Banù è rappresentata come una donna forte che sceglie il proprio destino, raffigurato, in questo caso, dal proprio sposo. Banù, infatti, è una sintesi di saggezza esistenziale e offre, difronte alle richieste di aiuto di Pupas, una spiegazione su come affrontare le difficoltà della vita.
Lara, invece, ha una storia diversa, è una profuga greca.
Lara racconta infatti che “Mentre in Italia si discuteva proprio sul divorzio, in Grecia si moriva di dittatura.”
E’ il 1967, l’anno in cui un gruppo di militari rovescia il governo eletto, instaurando una dittatura e dando vita al “regime dei colonnelli“ dominante fino al 1974.
Lara, come Pupas, viene quindi privata della figura del padre ma perché è arrestato e rinchiuso in un carcere segreto, vittima di una sopraffazione politica.
Lara è riflessiva, vive in sé le emozioni dell’amica e, grazie all’immaginazione di Pupas, riesce ad ampliare il suo sguardo sulla vita e sul suo futuro.
Partendo dalla situazione di “essere un esule”, l’autrice affronta due temi molto importanti che sono quelli del viaggio e della politica.
Il viaggio è la metafora per eccellenza, usata da tantissimi scrittori per esprimere il significato che ognuno ha del concetto del “viaggio”: “Chi sta bene non si muove”, “Un vero viaggio, non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi, “Ogni viaggio è alla ricerca di sé”.
Lara, per esempio, si muove perché è costretta, come tanti profughi che scappano dalle guerre, dal carcere, dalle torture, ma anche dalla fame, per necessità di trovare un rifugio, mentre altri invece si muovono solo per un piacere turistico. Sono quindi due valori diversi dell’andare e del restare.
Ubiquità però fa anche altro. Il viaggio nel romanzo è anche una storia di un’ossessione.
Il padre di Pupas, negli ultimi mesi di vita, all’ospedale non parlava altro che dei suoi viaggi in regioni straniere. Lei lo ascoltava rapita, anche perché finalmente quel padre, la coinvolgeva e condivideva, per la prima volta, la sua esistenza. Un confronto che anche Pupas, a sua volta, ha potuto finalmente affrontare, raccontando le proprie esperienze.
Di tutti i popoli che aveva incontrato, non restava molto da dire, anche perché aveva sempre avuto, con loro, solo un contatto veloce. Infatti, finiva poi di parlare solamente del lusso degli alberghi e degli aeroporti. Un esporre che la conduceva verso l’amarezza di comprendere, amareggiata, che alla fine pur avendo “fatto il giro del mondo, cosa mi è rimasto?”
L’ultima frase del padre, prima di morire, apre un altro grande capitolo, aperto a tutte le possibili risposte di ognuno di noi: “E io, io che sono stato dappertutto, dove andrò ora?”
Si apre così il tema della morte.
Dopo la sua morte, Pupas riprese a viaggiare in modo frenetico, era diventata ricca, poteva quindi realizzare il desiderio infantile di viaggiare ovunque.
Qui, l’autrice ci parla del fenomeno del turismo di massa. Chi viaggia così, si muove per compulsione, non per un desiderio accettando la pubblicità dell’industria del turismo che promette di ritrovare in ogni destinazione lo stesso mondo lasciato alla partenza. Si viaggia solo per poter dire: “Ho fatto il Sud America, poi a Natale faccio l’India“ una smania di arrivare ovunque, di vedere ogni cosa in un modo superficiale, fuori dalla realtà.
Ma dove ci conduce tutto ciò? Non basta viaggiare, occorre saper vedere, perché “l’occhio è la finestra dell’anima”.
Parlando del turismo di massa, si pensa subito al “modello Venezia”. Argomento molto attuale.
Nel libro, Venezia, non viene mai nominata, ma è presente. E’ la metafora della trama. Vivere a Venezia è difficile, ma è anche difficile andarsene e alla fine ci si ritorna. E’ facile perdersi tra i suoi vicoli, così come ci si perde nella vita. Ultimamente si è parlato molto della difficoltà della vita quotidiana dei veneziani in rapporto con i turisti. La responsabilità ricade sull’amministrazione locale che, evidentemente, tutela maggiormente i turisti che rappresentano una fonte di reddito, rispetto i suoi cittadini che invece decidono di andarsene. Oggi i suoi abitanti sono infatti meno di cinquantamila. L’autrice ha scelto, infatti, di non nominare nel suo romanzo “Venezia” perché non vuole dare il proprio contributo all’uso commerciale che si fa di questa città.
Ubiquità parla anche di politica, attraverso il mondo della contestazione giovanile e repressione degli anni ‘70. E’ sempre espressione della legge del più forte come imposizione violenta: la dittatura in Grecia, l’ipocrita logica della polizia di Stato, la brutalità delle guerre, delle carceri e le sopraffazioni israeliane in Palestina.
Nel capitolo 21, ci parla di Gerusalemme e descrive una situazione che si ripete ogni giorno attraverso l’incontro di Pupas con Bilal. Pupas si trova in Palestina per il servizio fotografico delle scarpe che, “aveva l’obbligo di dare visibilità ai rappresentanti di ogni religione”, ma proprio gli ebrei erano rimasti senza scarpe!
Bilal, un giovane palestinese sceso in piazza insieme ad altri giovani, a manifestare contro l’occupazione israeliana del loro paese, si era rifugiato nell’albergo di Pupas per sfuggire alle pallottole dei militari israeliani.
Pupas rimane straziata dal suo sguardo.
“La vita di Bilal e di quella di Roberto, sono macchiate dall’ingiustizia. Chi potrà mai riscattare tanto dolore, oppressione e crudeltà?” si chiede Pupas.
In questo romanzo, la fotografia, rappresenta la passione schiacciata tra realtà e irrealtà. Irrealtà perché all’inizio Pupas scatta senza rullino, ma poi da adulta, cambia.
Quando riceve l’offerta per un servizio fotografico, presso i popoli di 5 continenti, dove doveva fotografare scarpe colorate dal valore di 500 dollari ideate per lo spirito d’avventura dei dirigenti in ferie di New York, Parigi, Londra e Tokyo, ai piedi di chi non aveva mai indossato scarpe, i suoi scatti, pur unici, non riescono ad esprimere molto più di una semplice cartolina. Fotografie che non raccontavano la realtà di quelle persone. Persone sorridenti vestite secondo l’etnia di appartenenza messe in posa davanti all’obiettivo. Nessuna realtà, se non solo quella che il committente del servizio fotografico voleva trasmettere. Una realtà solo commerciale.
Pupas non era in grado di comprendere cosa c’era dietro l’apparenza di una foto, non vedeva la realtà delle persone. E alla domanda:
“Ti ricordi di tutte le persone che hai fotografato?” Rispondeva: “Sì, di alcune, non di tutte, ne ho fotografate così tante, io mi concentravo solo sulle pose, sulle scarpe”.
“Bè, almeno i paesi, le città, i villaggi..quelli ti resteranno impressi per sempre!”
“Non riesco a ricordare dov’ero! Era un lavoro frenetico, la cosa importante era il business non le persone! “
Le cose poi cambiano quando comincia a fotografare le persone e non più le scarpe, rendendo le fotografie più interessanti, più reali. Aveva trovato “il suo personale punto di vista”. La foto della copertina del libro ne è la prova!
Pupas, durante questa esperienza fotografica, vive un episodio che le tocca l’anima e che non lo dimenticherà mai più: quando incontra la povertà, un’ingiustizia che ferisce, abbruttisce e umilia i popoli ed individui perché “la povertà imbarazza”.
Pupas si lascia condurre per mano da una bambina in un piccolo villaggio a 80 chilometri da Kathmandu, vicino al confine con il Tibet. La sua presenza in quella casa la rende testimone della miseria, si sente un’intrusa e non pensa neppure alla macchina fotografica. Pupas comprende cosa significhi la povertà di un paese o di un popolo oppresso, quando entra nella casa di Praha. “Turba più la povertà privata e intima che quella universale”.
Pupas rimane talmente colpita da questa avventura che, una volta tornata a casa, la racconta a tutte le persone che incontra. Anche se la lettura dei fatti, pecca di una visione da “persone benestanti e al sicuro”. Una differenza espressa in modo chiaro anche da Lara, più realista, che con voce secca gli esprime il suo disappunto, quasi litigando:
“Quella bambina è troppo espansiva, troppo coraggiosa – diceva Pupas – Immagina se invece di me avesse incontrato un mascalzone..Qualsiasi persona può approfittarsi di lei e non c’è nessuno a difenderla”
“Non ti avrebbe avvicinato se tu fossi stato un maschio – rispondeva Lara –
“Poverina” ripeteva Pupas
Allora Lara replicava: “Al villaggio non le manca nulla, ha una famiglia che la cura, va a scuola, è felice, cosa le manca? Forse le scarpe di Pupas?”
Ritengo che il filo conduttore di Ubiquità sia proprio l’amicizia e l’amore.
L’amicizia lega le due protagoniste fin dall’infanzia attraverso il gioco “esprimi un desiderio”, permettendo di fantasticare sui loro stessi desideri.
Una di loro chiedeva “solo di curiosare nel vasto mondo”, l’altra, invece, pur non condividendo questa ossessione, assecondava il suo sogno.
Il loro legame poi continua passando dall’infanzia all’adolescenza e all’età adulta mantenendo sempre le loro differenze: una sempre più inquieta e insoddisfatta, mentre l’altra lascia le fantasie per una vita normale e reale.
Un’amicizia che tra loro non può finire, continua anche quando una di loro scompare.
Una subisce la scomparsa e quindi la perdita dell’amica di sempre, non accettandola e continuando a cercarla, non solo nel volto di quelli che incontra.
Tutta la ricerca di Pupas è un ansia di libertà.
Mentre afferma che “L’amore senza libertà muore” non resta incline e insensibile a qualsiasi complimento o a un gesto galante che la faccia sentire importante o possa illuderla di essere amata. Una disperata voglia di amore che contraccambia con altrettanta passione.
Oggi la società è molto cambiata e lo si vede dal comportamento delle persone fortemente omologate non solo dalla vita che li circonda ma anche da una frenetica mobilità dai social, il virtuale e dal mondo del lavoro sempre più aggressivo. E allora, per questo, a volte è necessaria, per ritrovare la nostra intima natura, la fuga da tutto questo.
Una prima libertà che l’autrice mette in evidenzia è il desiderio di avere un pianeta senza confini, un pianeta comune, in cui ci si può muovere a piacere. I confini sono barriere artificiali disegnate a tavolino dalle nazioni più importanti.
Ai confini si contrappone l’istinto di libertà.
Tutto ha inizio con una cartolina. Una cartolina proveniente dall’Australia che riportava solo la scritta: “Un caro saluto” da Pupas, datata dicembre 2018.
Erano vent’anni che Pupas non dava più nessuna notizia di sé.
Le cartoline per Pupas sono sempre state importanti perché rappresentavano il filo che la teneva legata al signor padre e, nello stesso tempo, le permetteva di volare via in altri luoghi. Pupas le conservava, le scrutava, le studiava, le odorava e le riponeva in una scatola. Per Lara, le cartoline erano un gioco, ma per Pupas erano un sogno, un miraggio che le agitava il cuore e le animava il desiderio.
Nella lettura di questo romanzo una cosa è certa: “Ubiquità” è un romanzo al femminile, con al centro il percorso della donna verso la sua emancipazione. Attraverso le prime rivendicazioni, spicca la voglia della propria libertà. Un percorso che continua ancora oggi tra mille difficoltà e che mai credo sarà fermato.
Recensione di Mirca Garuti