Da quando è partita l’offensiva israeliana contro il popolo di Gaza, Israele oltre ad uccidere sanitari e civili in nome del diritto alla difesa, ha deciso di utilizzare come bersagli, anche i giornalisti come Anas Al Sharif.
A denunciarlo e confermare tale abominio, sono gli oltre 248 giornalisti uccisi e l’impossibilità, ancora oggi, di poter entrare a Gaza per testimoniare ciò che sta avvenendo. Un diritto democratico per tutti i popoli, ad essere informati e non subire verità precostituite. (1)
Verità di parte, per lo più smentite dalle testimonianze attive dei tanti colleghi e cittadini uccisi per dimostrare al mondo politico, quello che può concretamente agire, il genocidio in atto a Gaza contro il popolo palestinese.
Una strategia volta ad impedire la comunicazione di ciò che sta avvenendo, in chiara violazione del diritto sancito dall’art.19 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani che definisce, per tutti e non solo per i giornalisti, il “diritto alla libertà di opinione e di espressione. Diritto di non essere molestati per le proprie opinioni e di cercare, ricevere e diffondere informazioni senza riguardo a frontiere”.
Ultimo della lunga serie di massacri di operatori dell’informazione palestinesi, è stato eseguito il 10 agosto 2025 contro lo staff di Al Jazeera a Gaza composto da Anas Al Sharif e i suoi colleghi Mohammed Qreiqeh, Ibrahim Zaher, Moamen Aliwa, Mohammed Noufal e Mohamed al-Khalidi.
Un omicidio mirato e rivendicato da Israele, verso e solo Anas Al Sharif, a cui non sono riusciti a sottrarsi altri 5 operatori che si trovavano con lui presso la tenda dei giornalisti. Luogo ben riconoscibile e di incontro per operatori ed operatrici, nei pressi della tendopoli dell’ospedale di Al Shifa di Gaza, a nord della Striscia.
VEDI PRESIDIO A MODENA PER ANAS AL SHARIF E I 248 OPERATORI UCCISI A GAZA
Secondo l’IDF israeliano, un assassinio giustificato dall’appartenenza del giornalista all’ala militare di Hamas,(2) di cui ne erano a conoscenza sin dal 2022 e che guarda caso, hanno deciso di eliminare giusto poco prima di iniziare l’offensiva militare definitiva volta all’occupazione totale della striscia.
Importante, in realtà, era l’eliminazione di una possibile testimonianza giornalistica, accreditata dal serio lavoro svolto da Anas Al Sharif e dal suo staff, ritenuto scomodo proprio per la sua autorevolezza riconosciuta e seguitissima, soprattutto e non solo, in tutto il mondo arabo.
Un “giornalista terrorista eliminato”, come definito anche dall’agenzia AGI e riportato senza verifica su autorevoli giornali come La Repubblica, su cui Israele in realtà, non ha fornito delle prove tangibili.
Prove che se anche fossero ulteriormente confermate, in ogni caso, non possono permetterci di accettare la drastica soluzione intrapresa. Non è possibile accettare una soluzione assassina senza tutele e senza processo. Soprattutto se Israele viene ritenuto, dalle comunità politiche internazionali, l’unica democrazia presente in Medio Oriente. Perché, se così fosse, allora abbiamo un altro problema assai grave.
Se questo modo di agire, sarà considerato il modello democratico futuro a cui si stanno aspirando come le nostre Democrazie, allora l’emergenza diritti e libertà, che con presunzione era considerato un privilegio Europeo, è di fatto un problema che può e deve direttamente coinvolgerci.
Anas Al Sharif poteva, invece, essere prelevato dall’IDF in qualsiasi momento, imprigionato e torturato, come del resto ordina Israele ornai da anni senza neanche nasconderlo, per farlo confessare e consegnare i nomi dei suoi complici. Un abominio, sotto gli occhi di tutti, usato ormai come prassi in quella striscia di terra dove la vita e la morte è decisa da un pezzo di pane, da un cecchino, da un onnipotente algoritmo dell’Intelligenza Artificiale o da un indiscriminato bombardamento.
Invece si è scelto di bombardare quei giornalisti con un drone, giustificandolo con due foto distribuite a giornalisti compiacenti, scattate in compagnia delle autorità di Hamas che, ricordiamolo, erano state liberamente elette a governare nella striscia.
Pensiamo se il medesimo criterio si usasse nei confronti di quei giornalisti che in Europa e in particolare in Israele, come i giornalisti di Haaretz, si oppongono a quanto sta avvenendo a Gaza e Cisgiordania. Gidon Levi e Amir Hass avranno ben una foto con le autorità dell’ultra destra israeliane o palestinesi?
Magari anche in Italia, giornalisti come David Parenzo, Antonio Monteleone o Claudio Cerasa ad esempio, ne hanno una con quelle autorità israeliane in ragione del loro prezioso lavoro svolto di difesa di Israele. Per fortuna noi non siamo in guerra con Israele e qui, a differenza e per fortuna, non sarebbe concesso con tanta superficialità.
Come segnalato da Pino Nicotri, un’inchiesta del magazine israeliano +972 riporta che “esiste un’unità dell’IDF per diffamare i giornalisti a Gaza”. Un’unità speciale dell’esercito israeliano sarebbe stata incaricata di identificare i giornalisti che potrebbero essere accusati di essere combattenti sotto copertura di Hamas, per prenderli di mira e smorzare l’indignazione internazionale per l’uccisione di operatori dei media. Questo scritto è stato citato anche dal Guardian.
La “cellula di legittimazione” (3) sarebbe stata istituita dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 per raccogliere informazioni che avrebbero potuto rafforzare l’immagine di Israele e ottenere il sostegno diplomatico e militare da parte di alleati chiave, si legge nel rapporto, citando tre fonti di intelligence. Secondo il rapporto, in almeno un caso l’unità ha travisato le informazioni per descrivere falsamente un giornalista come militante, una designazione che a Gaza equivale di fatto a una condanna a morte. L’etichetta è stata invertita prima dell’aggressione, ha affermato una delle fonti.
Quello che preoccupa è che, nonostante tutto, anche in Italia, viene negato il genocidio anche a fior di denunce rivolte verso colleghi che osano parlarne; come con accuse di antisemitismo se parli di “modalità sioniste” di concepire la politica israeliana.
Per non parlare poi, delle offese spudorate, razziste e violente verso operatori della comunicazione palestinesi, uccisi con i propri familiari, sancite con sete di vendetta, da parte di colleghi italiani prostrati a difendere l’indifendibile, nonostante l’evidente violazione dei diritti umani e degli omicidi costantemente effettuati dall’IDF, su donne e bambini.
Perchè a Gaza non è in atto una guerra, ma un’azione punitiva, etnica e religiosa messianica di dominio coloniale volto a reprimere l’opposizione di un popolo a un regime di apartheid. In caso contrario: genocidio o abbandono, chiamato da Israele “esodo volontario”, dalla propria terra.
Ormai in quella terra di Palestina, tutto può avvenire in violazione del diritto umanitario, figuriamoci in rispetto di questo basilare diritto democratico all’informazione. Un superamento culturale di cui, in Italia in special modo, la nostra stessa categoria non è esente da responsabilità e su cui dovrebbe riflettere seriamente e non ciondolarsi in soluzioni individuali dalla corta strategia.
Il vero problema è che l’opinione pubblica si è ormai assopita ed accettato questo problema.
Solo in parte ritiene infatti, che la libertà di stampa sia strettamente legata alla libertà di espressione e che, la protezione dei giornalisti e dei professionisti dei media, sia fondamentale per garantire la libertà di stampa. Online come offline. Non crede e non è consapevole, che senza libertà di stampa non può esistere Democrazia.
A Gaza sotto gli occhi del mondo, il popolo palestinese, come la nostra dignità, muore di fame e piuttosto di pretendere che sia concesso alle organizzazioni umanitarie, coordinate dall’ONU, di entrare a distribuire viveri, si preferisce gettarli con voli aerei, con enorme dispendio di denaro, che di fatto non possono cambiare le sorti della vita di quella popolazione. Voli a cui operatori della comunicazione, quando invitati, è vietato filmare e documentare il deserto di infrastrutture e case, causato dai bombardamenti massicci effettuati a Gaza in questi quasi due anni. Viene comunque impedito di documentare la sua reale e totale distruzione.
Bombardare viveri non permette neanche il cosiddetto controllo da parte d’Israele che diventino possesso, come denunciato pericolo, solo di Hamas. Una giustificazione in netto contrasto con la motivazione dell’impedimento all’ingresso dei camion umanitari e sbugiardando la vera motivazione legata alla volontà militare di utilizzare la fame come strumento di guerra e di soppressione genocidaria di un popolo.
Per questo è fondamentale che ancora continuiamo a gran voce a chiedere che la comunità internazionale attivi iniziative concrete perché Israele cessi i bombardamenti, si ritiri dalla Striscia e lasci gestire gli aiuti a Gaza dalle Nazioni Unite e da organizzazioni internazionali autorevoli.
Israele deve anche rispettare il diritto di cronaca. I giornalisti non possono essere considerati dei bersagli e i media internazionali devono entrare subito a Gaza e nei territori occupati perché negarlo, significa violare arbitrariamente il diritto di essere informati e il rispetto di principi democratici fondamentali a cui Israele dice di ispirarsi.
LINK
1 – https://alkemianews.it/2025/06/11/basta-sangue-nostri-giubbotti/
3 – https://www.invictapalestina.org/archives/57567