“Solo grazie all’occupazione della facoltà che abbiamo ottenuto lo stop alla collaborazione con Israele da parte dell’università di Ancona”.
È Veronica Barlassina, portavoce dell’Unione degli Universitari della provincia di Ancona, a raccontare il percorso e la mobilitazione intrapresa dagli studenti dell’università Politecnica delle Marche, per attuare il boicottaggio accademico della loro università.
E’ dalla primavera scorsa che, anche in Italia, sono iniziate numerose occupazioni di università. A seguire di quanto avvenuto negli Stati Uniti e su sollecitazione degli studenti di origine araba o palestinese, diversi studenti hanno pensato di agire per tentare, con azioni concrete, di rompere il legame di collaborazione tra i nostri centri di ricerca e quelli israeliani. Obiettivo era portare il boicottaggio accademico (PACBI) all’interno delle università per esercitare una forte pressione sul governo italiano ed israeliano affinché si interrompesse in genocidio in atto a Gaza ed in Cisgiordania.
Un azione degli studenti delle facoltà, che avevamo già documentato anche in occasione dell’occupazione dell’università di Parma (1).
“A giugno abbiamo sentito anche noi l’esigenza , dopo un lungo percorso, di arrivare a fare un’azione di questo tipo. Abbiamo ritenuto importante considerare il boicottaggio accademico, un elemento fondamentale di lotta. Anche perché – prosegue Barlassina durante un iniziativa pubblica tenuta a Urbino il 5 aprile scorso – le università per Israele sono un elemento di repressione e sviluppo di ricerche militari”.
In pratica, si sofferma sulla sua definizione di “centro di sviluppo di ricerche militari”.
“Le università israeliane, vengono utilizzate sia come Soft Power, ovvero strumento di propaganda democratica da vendere agli occhi della comunità internazionali, come fondamentali centri di ricerca in campo bellico. Ovvero, costruiscono e studiano nuovi armamenti, forme di repressione e di controllo. Sono a tutti gli effetti, complici del genocidio in atto. Oltretutto sono anche uno strumento di occupazione molto importante. Non solo militare ma anche culturale”.
L’università di Ancona, infatti, collabora, tramite un accordo, con l’università di Ariel in Israele che, a detta dai palestinesi stessi, è da considerare uno strumento di occupazione.
“L’università israeliana di Ariel, ne è un esempio concreto. E’ sita in territori palestinesi occupati, riconosciuti illegali anche dal ONU, ed è organizzata come strumento di occupazione. Non lo diciamo solo noi, ma lo dice anche Maya Wind (2). Ariel è considerata un territorio estremamente militarizzato, – spiega alle persone presenti in sala – dalla stessa opinione pubblica israeliana. Da quando è stata fondata questa università, questo territorio, questo incredibile e gigantesco campus universitario iper-moderno, è diventata uno strumento utilizzato da Tel Aviv per propagandare un luogo Democratico dove una comunità studentesca, può formarsi “all’occidentale” dando un’idea di democrazia e di libertà che in realtà sappiamo che non corrisponde al vero. Soprattutto rispetto al popolo palestinese. Da qui la necessità d’interrompere, come università Politecnica delle Marche i nostri rapporti con loro”.
Sottolinea poi che per loro era importante era non essere complici, attraverso l’utilizzo di progetti di ricerca italiana, che possono essere utilizzati per assassinare migliaia e migliaia di palestinesi.
Interessante è stato poi, il percorso che ha portato gli studenti in occupazione a raggiungere l’obiettivo di interrompere questi rapporti.
“Innanzitutto abbiamo utilizzato lo strumento del dialogo con le istituzioni universitarie di Ancona attraverso l’uso della rappresentanza studentesca. Ovvero abbiamo presentato un documento che richiedeva una serie di rivendicazioni. Prima di tutto la cessazione di qualsiasi rapporto con tutte le università israeliane, il riconoscimento di quello che sta accadendo in Palestina e la richiesta dell’istituzione di una commissione dual use (3) che affrontasse ed analizzasse tutti i progetti di ricerca che possono avere un doppio fine sia civile che militare”.
Ovviamente la risposta dell’università non si è fatta attendere, nonostante l’organizzazione degli studenti abbiano percorso la richiesta secondo procedure.
“Presentato al Senato Accademico, ha ricevuto pochissimi voti favorevoli ed è stato completamente ignorato o votato contrario a causa di una grave ignoranza dimostrata sull’argomento da parte del corpo docente, in sede di dibattito. Utilizzando scuse riferite all’importanza di questi progetti senza entrare nel merito di cosa in realtà significano o possono significare in campo bellico. Da qui la nostra scelta di presentare un ulteriore documento, questa volta cercando di diminuire le richieste ed essere ancora più mirati. Ovvero, abbiamo chiesto la cessazione di ogni rapporto con l’Ariel University e l’istituzione di una commissione dual use. Purtroppo però, al Senato successivo, questi argomenti non sono stati affrontati ma fatti passare dal Rettore solo come una comunicazione. Addirittura il Rettore non si è sentito neanche di affrontare direttamente questo argomento”.
Di qui la scelta di procedere con l’occupazione.
“Difronte a questa remissiva risposta, abbiamo sentito l’esigenza di agire con l’occupazione perché, come stava già venendo in molte facoltà italiane, la rappresentanza studentessa non era più sufficiente. Era necessario, come poi è avvenuto, trasformare la nostra rivendicazione in un’azione concreta e mediatica anche nella nostra provincia. Da qui il piantare le tende nel cortile della facoltà di Economia senza però avere il controllo degli ingressi in università. Ovvero abbiamo, per i 10 giorni di occupazione, permesso il normale scorrimento delle elezioni. Nonostante – prosegue la studentessa – siamo comunque riusciti di organizzare, una serie di incontri di approfondimento e auto-formazione sull’argomento”.
Dalla cronologia degli eventi poi, si viene a conoscenza che è stata positiva anche la partecipazione di alcuni docenti dell’università. Anche il Preside della facoltà di Economia, che all’inizio non aveva compreso la loro occupazione, alla fine ha comunicato agli studenti che avrebbe dato esito positivo in Senato accademico.
“Pur quanto detto, certamente la questione del coinvolgimento mediatico creato dall’occupazione e l’esposizione dello striscione “Nothing in my name” appeso al di fuori dell’ateneo, hanno svolto un accelerazione decisionale. Il giorno che è stato appeso, ci ha chiamato il Rettore invitandoci ad incontrarci sulla possibilità di discutere di azioni concrete”.
Da qui ne è seguita la decisione concreta, presa in Senato Accademico e comunicata con una lettera all’Università israeliana di Ariel, dove si specificava che come università Politecnica delle Marche, era da considerare nullo l’accordo di collaborazione tra le due università e la realizzazione di una commissione dual-use come richiesto dal BDS. (4)
“La costituzione della commissione dual-use è un importante passo avanti per attuare un boicottaggio accademico e nell’opposizione al massacro in atto nei territori occupati. Ora dobbiamo continuare, non solo di controllo del rapporto con le università israeliane ma soprattutto, sulle collaborazioni con le altre università, anche italiane che appunto sviluppino ricerche per prodotti, software e tecnologie che possono essere utilizzati sia per scopi civili che militari”.
Erano oltre 15 anni che non era stata occupata l’Università di Ancona e una cosa è certa: l’occupazione ha permesso agli studenti, di poter organizzare eventi che differentemente, senza l’occupazione, gli sarebbero stati negati. Per non parlare poi del risultato ottenuto con i docenti. Quasi una loro auto-formazione che gli ha permesso di comprendere la gravità di ciò che sta avvenendo in Palestina. Soprattutto, comprendere e superare la necessità ed obbligatorietà, chiesta agli studenti, di avere presente durante le iniziative, anche un contraddittorio identificato come componente della comunità ebraica. Come se quello che sta avvenendo a Gaza e in Cisgiordania avesse bisogno di essere giustificato o argomentato dal punto di vista religioso. Quasi ad forzare il concetto per cui, ciò che sta accadendo ha a che fare con un problema semita e non sionista che significa colonialista e genocida.