Tutto è iniziato, ufficialmente, il 31 dicembre 2019. Non è l’inizio di un film o di un libro ma, di una vera catastrofe mondiale che si svilupperà esponenzialmente sino ai nostri ultimi giorni. Si tratta di un focolaio di casi di polmonite “anomala” nella città di Wuhan (Provincia dell’Hubei – Cina). Il Centro per il controllo e la prevenzione delle malattie cinese, il 9 gennaio ha identificato, come causa di queste patologie, un nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) a trasmissione da uomo a uomo. La prima vittima in Cina è avvenuta l’11 gennaio, mentre il 13 il primo decesso fuori confine, in Thailandia. Successivamente si registrano i primi casi anche in Europa e Usa. Il 30 gennaio, l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) annuncia emergenza globale mentre l’11 febbraio viene dato il nome a questa malattia respiratoria: COVID-19 e l’11 marzo è dichiarata pandemia.
Intorno a questa situazione è già stato detto tutto o niente, le polemiche sono infinite, tutti sono diventati improvvisamente esperti con la verità in tasca! Una discussione che non porta a nulla. La cosa necessaria ora è riuscire ad arrestare questa pandemia. Si tratta di una lotta comune contro la natura, una battaglia per salvare la civiltà umana. Il virus non ha precisi obiettivi, colpisce e basta. Certamente ha messo a nudo la nostra società, il suo comportamento, il suo pensiero, la sua mentalità, a favore dell’interesse ed egoismo personale contro il bene collettivo e l’altruismo delle persone. Come si dice “Il re è nudo”, ora la realtà delle cose è evidente e tocca a noi, al popolo reagire di conseguenza. Albert Camus ha scritto che “Ciò che è vero per tutti i mali del pianeta è vero anche per la peste. Aiuta gli uomini a elevarsi al di sopra di se stessi.” Ma è anche vero che una crisi ha il potere di smascherare anche la vera natura umana che si cela dentro ognuno di noi, sviluppando comportamenti inaspettati e inconsapevoli generati dal panico. Le persone che sono sempre state competitive con il prossimo, difficilmente riescono a condividere beni comuni, la loro personale sopravvivenza è più importante!
Il nostro mondo è in pericolo non solo per il virus che incombe oggi su tutti noi, ma anche per il riscaldamento globale che piano piano distrugge e modifica le nostre vite. Una minaccia al pianeta che però non ha provocato panico tra le persone, perché si sviluppa in modo graduale, cambiando di poco il nostro modo di vivere o forse anche perché è un problema lontano che coinvolgerà altre generazioni. Il nuovo Coronavirus invece si diffonde ad una grande velocità, sembra quasi essere un test per pesare la nostra capacità di reagire di fronte ad un disastro globale.
Per combattere quest’emergenza tutti gli stati coinvolti hanno adottato misure drastiche di contenimento per evitare il più possibile il contagio tra le persone. Il virus non guarda in faccia a nessuno, non fa differenze, ma le differenze si creano in base dove il virus colpisce.
I casi confermati nel mondo, al 31 marzo, sono arrivati a quota 754.948 di cui 36.571 sono i deceduti coinvolgendo 203 paesi. In Italia, i contagi sono 105.792, di cui positivi 77.635 – deceduti 12.428 e guariti 15.729
Nel mondo sono oltre 2,6 miliardi le persone costrette a casa a causa delle restrizioni dovute all’epidemia. Una portavoce dell’Organizzazione Mondiale della Sanità afferma che l’85% dei casi di coronavirus segnalati nelle ultime 24 ore sono stati in Europa e negli Stati Uniti, stato in cui si sta assistendo a una “grande accelerazione” e che può diventare il prossimo epicentro dell’epidemia.
Tutte le informazioni che riguardano i contagiati nel mondo, principalmente, Europa, Usa, Cina, si riferiscono al mondo produttivo o ai pensionati. Pochissime le notizie che riguardano invece altre situazioni come i braccianti, gli immigrati, i senza tetto o ad altri paesi come il Medio Oriente e l’Africa, ossia gli ultimi della terra.
Mentre i fortunati, ossia la maggior parte degli abitanti europei, sono confinati dentro le loro case con tutte le solite comodità, altri, meno fortunati, sono confinati in aree rurali senza acqua corrente o potabile.
Aboubakar Soumahoro, sindacalista dell’USB, punta il dito contro le ultime disposizioni del governo italiano che, se da una parte ha giustamente dichiarato il settore dell’agroalimentare tra le attività che non si possono fermare, dall’altra ha sorvolato, ancora una volta, sulla situazione dei braccianti sfruttati nelle nostre terre. Il dramma della pandemia nelle baraccopoli, nei campi da lavoro si somma così alla miseria e allo sfruttamento di tutti i giorni. Si sono tutelati i grandi distributori, ma sono stati lasciati indietro i lavoratori della filiera, i braccianti abbandonati nelle baraccopoli fatte di lamiera, senza acqua, senza mascherine e senza guanti. Chi vive ai margini della società, resta abbandonato, oggi come ieri.
Il virus non decide chi colpire ma i governi invece decidono chi salvare.
Questo certamente è il frutto del sistema sanitario in vigore in ogni paese, un sistema che ha penalizzato la sanità pubblica a beneficio di quella privata seguendo le logiche del mercato globalizzato. L’esempio più chiaro viene dagli Stati Uniti d’America. In questa situazione d’emergenza, più di dieci stati scelgono infatti chi salvare: in Tennessee le persone affette da atrofia muscolare spinale verranno «escluse» dalla terapia intensiva; in Minnesota saranno la cirrosi epatica, le malattie polmonari e gli scompensi cardiaci a togliere ai pazienti affetti da Covid-19 il diritto a un respiratore; il Michigan darà la precedenza ai lavoratori dei servizi essenziali e nello Stato di Washington, il primo a essere colpito dal coronavirus, così come in quelli di New York, Alabama, Tennessee, Utah, Minnesota, Colorado e Oregon, i medici sono chiamati a valutare il livello di abilità fisica e intellettiva generale prima di intervenire per salvare una vita.
I diversi stati americani si preparano quindi a definire i criteri di selezione su come affrontare la pandemia in atto, non solo prendendo in esame gli aspetti sanitari delle persone ma anche quelli intellettivi. Ovvero una vera e propria discriminazione attuata nei confronti dei soggetti disabili.
L’esempio dell’Alabama parla chiaro. In un suo documento sostiene che «disabili psichici sono candidati improbabili per il supporto alla respirazione». Inoltre, in quasi tutti i documenti di gestione delle risorse è presente un altro principio molto preoccupante, quello della “regola d’oro”: si chiede al paziente se, in caso di scarsità di strumenti salvavita, vuole utilizzarli oppure donarli a chi potrebbe avere più probabilità di sopravvivere o ha un maggior valore per la società. Questa è “la cultura per la vita” espressa dalla società democratica americana a cui molti aspirano.
Il virus è riuscito comunque a frenare l’intensità delle proteste sociali in atto nel mondo.
La diffusione del Coronavirus ha creato un’ulteriore crisi all’interno di una crisi economica e politica vissuta da molti anni nei paesi del Medio Oriente e dell’Africa del nord. Anche perché la struttura economica di questi paesi non è la stessa dei paesi occidentali.
In Algeria, gli studenti che da più di un anno scendono in piazza ogni martedì, hanno sospeso le manifestazioni settimanali. Tutto il Paese è di fatto in “isolamento” dopo le ultime restrittive misure decretate dal presidente Abdelmadjid Tebboune. Il ministero della Sanità di Algeri in un comunicato della Commissione speciale per monitorare il diffondersi della malattia, ha dichiarato che i casi confermati sono 230 e i decessi 17, precisando che la regione più toccata è quella di Blida e che il 90% dei casi sono stati “importati” dall’Europa.
In Iraq, il governo iracheno ha deciso un coprifuoco di una settimana e la chiusura di scuole, università, centri commerciali, cinema, ristoranti e bar. Secondo le dichiarazioni del Ministero della salute, i casi di Covid19 sono attualmente 266, 23 i decessi, ma visto la scarsità dei tamponi, il numero è realisticamente maggiore. Un disoccupato di Baghdad ed attivista del collettivo politico formato all’inizio delle proteste contro il governo ha dichiarato: “I lavoratori stanno vivendo una tragedia, perché la grande maggioranza vive alla giornata. Disoccupati e lavoratori informali non hanno nè entrate regolari e quindi neppure risparmi, né ammortizzatori sociali in caso di perdita di salario. In mancanza di tutto questo oggi si trovano in forti difficoltà vitali, a loro mancano i soldi per comprare del cibo.” Il lavoro pubblico in Iraq corrisponde al 40% di tutti i posti di lavoro e gode ancora garanzie salariali e sociali, a differenza di quello privato dominato dalle irregolarità. “Gli impiegati pubblici stanno svuotando i supermercati, accumulando scorte a casa – dichiara ancora il disoccupato – Chi invece era costretto a vivere alla giornata e non è riuscito a mettere da parte dei risparmi, oggi soffre la fame”.
Il sistema sanitario in Iraq ha visto un forte deterioramento prima sotto il regime di Saddam Hussein e poi a causa delle varie guerre ed embarghi degli anni ‘90 e dei primi anni 2000. Secondo il Ministero della salute il 40% dei medicinali passano dal mercato nero dei paesi vicini. Oggi, di fronte al problema del Coronavirus, mancano informazioni e prevenzione. Le proteste però, secondo il disoccupato, continuano, perché non sono cambiate le ragioni per cui sono scesi in piazza: il sistema sanitario e sociale totalmente insufficiente nel rispondere alle necessità delle persone. Ovviamente, dopo la diffusione del virus, il numero dei manifestanti è diminuito e molti eventi sono stati annullati, ma circa 10.000 persone continuano ad occupare Piazza Tahir. “All’interno del nostro villaggio di tende a Piazza Tahir stiamo disinfettando tutto, dai vestiti, materassi, tende, strumenti agli attrezzi. Stiamo distribuendo dispositivi di protezione individuale come mascherine e guanti”. Per affrontare il problema del cibo e dell’aumento dei prezzi, nei quartieri popolari si organizzano per condividere cibo ed altri prodotti di prima necessità. Il coronavirus diventa così una lotta contro lo Stato corrotto e le sue disuguaglianze sociali. (info da Nena News).
In Iraq non ci sono solo le lotte contro il governo iracheno, ma esiste anche la situazione del popolo curdo. La loro condizione di vita è ovunque molto difficile, quotidianamente infatti subiscono pesanti violazioni dei diritti umani in tutte le quattro nazioni dove attualmente vivono (Iraq, Siria, Turchia, Iran) ma questo non gli impedisce, in un momento così difficile per tutti, di dimostrarci solidarietà e amicizia. Uiki (l’ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia) e la Federazione curda d’Europa, inviano messaggi di solidarietà, di simpatia e di profonde condoglianze per tutte le vittime del coronavirus. Il popolo del Kurdistan in tutto il mondo, ha dimostrato la sua solidarietà al popolo italiano, il 25 marzo alle ore 18,00, uscendo sui balconi di case e palazzi facendo un forte applauso e cantando canzoni curde e italiane. La grandezza di un popolo si vede anche da queste piccole cose.
In questi tempi d’emergenza sanitaria, si sperava che, l’odio verso i curdi da parte del governo turco si potesse fermare, invece no. Il governo turco utilizza il clima di pandemia come un’opportunità per usare le forme più vili di repressione contro le istituzioni democratiche curde, specialmente colpendo le municipalità, rendendo così ancora più difficile contrastare il coronavirus. Il 23 marzo, infatti, la polizia turca ha fatto irruzione in diverse municipalità amministrate da HDP e abitazioni in varie località curde, arrestando molti sindaci eletti e sostituendoli in modo illegali con funzionari del governo turco.
Nel campo di Makhmour, nel Kurdistan iracheno, le condizioni dei profughi curdi sono molto preoccupanti. Il campo, in pieno deserto, è abitato da circa 13.000 curdi (ultimo censimento risale a 7 anni fa), di cui 3.500 sono ragazzi in età scolare ed il 70% ha meno di 32 anni. Provengono tutti dalla regione del Botan e sono fuggiti a piedi dalla Turchia nel 1993, dove non possono tornare, e arrivati in Iraq nel 1998. Makhmour rappresenta il simbolo di resistenza di un popolo in fuga che è riuscito a trasformare uno spazio avverso di terra senza acqua, ai piedi di colline di pietra dove il governo del Kurdistan iracheno li aveva mandati a morire, in un luogo dignitoso, organizzato mettendo in pratica il sistema del Confederalismo democratico. Il campo, essendo legato al Pkk , si trova da luglio scorso sotto totale embargo, causa l’accusa rivolta a questa organizzazione di essere responsabile di una sparatoria avvenuta il 18 luglio 2019 in un ristorante ad Erbil, causando la morte di due persone, un civile iracheno e un diplomatico turco. Il diplomatico è risultato poi essere in realtà un agente dei servizi segreti turco. A causa di questa azione, Erdogan ha fatto pressione sul governo regionale per mettere il campo sotto embargo. La prima diretta conseguenza si è avuta sul lavoro: il 70% dei lavoratori del campo che lavoravano a Erbil è stato licenziato e l’altro 30% non può rientrare nel campo per non perdere il lavoro a causa di ricatti da parte della polizia che ne controlla gli accessi. Makhmour non subisce solo l’embargo ma è anche spesso oggetto di varie incursione sia da parte del governo turco che dell’Isis.
Le loro condizioni sanitarie ed economiche erano già allo stremo ed ora incombe su di loro anche lo spettro del coronavirus. E nonostante questa situazione critica, hanno pensato a noi italiani inviandoci un video di solidarietà per tutto quello che stiamo vivendo. Questa dimostrazione d’affetto, oltre a riempirci il cuore di gioia, dimostra anche l’importanza che può avere il sostegno di popoli diversi ma uniti nel rispetto del valore umano che è e resta, un valore universale.
A Makhmour non esistono strutture specifiche né tanto meno la possibilità di fare i tamponi, quindi hanno agito subito per cercare di contenere questo pericolo, che per loro significherebbe solo morte certa. Per prima cosa hanno interrotto tutte le attività come, riunioni, scuole, celebrazioni, caffetteria, casa del the, e organizzato seminari e messo cartelli sparsi in tutto il campo dove informano le persone sul coronavirus e come ci si può difendere. Inoltre, hanno collocato all’ingresso del campo un team sanitario per controllare le persone che vengono dall’esterno e creato un luogo da adibire all’isolamento di chi lavora in luoghi dove il coronavirus risulta attivo. Vengono controllati ogni giorno anche mediante radiografie del torace e, se dopo 14 giorni, non si presentano problemi, sono rimandati a casa dove devono rimanere per altri 10 giorni isolati prima di uscire e tornare ad una vita quasi normale. Attualmente ci sono in quarantena 100 persone.
Restare a casa. Questo è lo slogan che il mondo grida! Ma chi non ha una casa, ma una tenda?
E’ il caso dei rifugiati Yazidi nel governatorato di Duhok, sempre nel Kurdistan iracheno. Rossella Assanti, giornalista, riporta in un suo reportage: “Hai idea di che cosa comporterà questo? – ci raccontano i civili di Duhok – Siamo in piena emergenza sanitaria per il Covid-19 e ora molte persone, a causa dell’inondazione subita nei giorni scorsi, hanno perso la loro tenda o si ritrovano con case gravemente danneggiate. Alcuni sono costretti a vivere in più famiglie in una sola tenda. State a casa, ci dicono. Abbiamo un ordine da rispettare o si rischiano gravi sanzioni. Noi ci proviamo a stare nelle nostre tende, ma poi ecco cosa succede, succede che anneghiamo nelle inondazioni. Abbiamo paura per la nostra vita sotto ogni aspetto”.
Anche nella regione siriana di Afrin la situazione è drammatica. Sempre Rossella Assanti riporta l’attenzione su quest’aerea dove ci sono oltre 200mila sfollati dell’attacco turco avvenuto nell’autunno scorso. Non ci sono ancora casi confermati di coronavirus ma, se dovesse arrivare l’epidemia, si rischierebbe una catastrofe umana perché non hanno né gli strumenti necessari per contenerla e né personale medico preparato. “C’è solo un ospedale operativo – afferma Rossella in un’intervista audio rilasciata a Nena News – che non e’ altro che un vecchio edificio dove le stanze sono state adibite a laboratorio analisi, sala operatoria, una piccola camera di terapia intensiva, 2 ventilatori e un luogo per accogliere donne in gravidanza”.
In tutti i campi profughi serpeggia l’incubo di una possibile epidemia causata dal Coronavirus, come anche ad esempio in Libano, Cisgiordania e Gaza.
Oggi il Libano si trova in estrema difficoltà. Da una parte la sua situazione economica e dall’altra lo spettro del virus. Sabato 7 marzo il primo ministro Hassan Diab, in carica dal 21 gennaio scorso, ha annunciato il default del paese: non è possibile rimborsare la rata da 1,2 miliardi di dollari di interessi sul suo debito pubblico. Il Libano, un paese grande quanto l’Abruzzo con il sistema bancario più grande del Medio Oriente si trova in bancarotta. Da ottobre, il prezzo della sterlina libanese – ufficialmente agganciata al dollaro dal 1997 – sul mercato nero è crollato e le banche hanno dovuto limitare i prelievi in dollari, paralizzando l’economia nel suo insieme. Questa crisi, annunciata da tempo, è legata ad una lunga incertezza politica e alle ultime proteste di piazza contro gli aumenti dei prezzi, l’alto tasso di disoccupazione giovanile (37%) e la forte corruzione del potere. Da settembre 2019 a febbraio 2020 hanno chiuso tra ristoranti, pub e trattorie, 800 esercizi. A gennaio 2020 Le imprese fallite, con la diretta conseguenza della perdita di posti di lavoro, sono state, 240. Il costo della vita è salito alle stelle e a Beirut si discute della possibilità di mettersi nelle mani del Fondo monetario internazionale. Hezbollah, la principale forza politica-militare libanese, organizzazione sciita e filo iraniana ha opposto il proprio veto a causa dell’influenza degli Stati Uniti all’interno dell’istituzione. Fino a questo momento, non è stato intavolato nessun negoziato.
All’interno di questa grave crisi economica si è insinuato anche l’incubo del coronavirus. Il primo febbraio è stato annunciato il primo caso positivo, il cui contagio è stato subito attribuito, dalle fazioni anti Hezbollah, ad un pellegrino tornato da Theran, ma in verità l’ammalato risulta essere un frate arrivato in Libano dall’Italia. Si registrano, dagli ultimi dati pervenuti, 333 casi ufficiali e 6 decessi. Il governo libanese ha finora attuato misure preventive su tutto il paese ma non ha ancora elaborato un piano socio-economico per limitare le conseguenze economiche e finanziarie della crisi. Il numero dei casi non corrispondono alla realtà del momento perché sono stati fatti pochissimi tamponi e sono registrati solo coloro che sono ricoverati in gravi condizioni. Considerando poi che la sanità in Libano è per l’80% privata, le prospettive in caso in cui l’epidemia aumenti, sono pessime. Le misure di quarantena sono state comunque messe in atto in modo tempestivo, i libanesi hanno reagito bene e Beirut e come le altre città, ad esempio, Tripoli, Saida, Baalbek, sono praticamente deserte.
La TV “Al Manar,”da notizie riportate dal sito “AnsaMed, il 26 marzo scorso, del movimento sciita filo-iraniano, ha diffuso una intervista al Presidente del consiglio esecutivo di Hezbollah, in cui si annuncia lo stanziamento di più di due milioni di dollari (tre miliardi e mezzo di lire locali) per far fronte alla crisi pandemica in corso. Il piano prevede anche la mobilitazione di 24.000 membri attivi del Partito di Dio, tra medici, paramedici, operatori di pronto soccorso, personale logistico, solitamente usati nel quadro delle “resistenza”, in riferimento alla lotta contro Israele. Hezbollah ha inoltre informato di aver affittato ospedali privati in Libano per equipaggiarli per l’emergenza, oltre ad aver allestito 32 centri sanitari. Questo intervento si limita naturalmente alle aree dove il Partito ha una base sociale di consenso, ossia nel sud del paese, nella valle della Bekaa e nella periferia sud di Beirut.
Esiste anche il problema dei campi profughi palestinesi
All’interno del Libano ci sono 12 campi profughi ufficiali palestinesi, suddivisi al Nord (2), a Beirut (4), a Sidone (2), a Tiro (3), e a Baalbek (1), per un totale circa di 450.000 palestinesi.
I campi sono una delle vergogne dell’umanità. Nascosti agli occhi del mondo, un agglomerato di persone senza terra che sopravvive nel limbo dell’attesa. I campi palestinesi sono stati esclusi dal piano di emergenza annunciato dal Ministero della Salute per affrontare il coronavirus, in quanto, la responsabilità della prevenzione, in caso d’infezione, ricade sull’Unrwa, l’Agenzia delle N.U. per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi. L’Unrwa ha chiuso tutte le scuole all’interno dei campi, vietato le riunioni ed organizzato seminari di sensibilizzazione e diffuso messaggi sulla pericolosità del virus e su come difendersi attraverso i social media e WhatsApp. I rifugiati palestinesi, nonostante l’assenza di infezioni, non sono tranquilli, anche a causa della loro impossibilità di poter acquistare prodotti per la sterilizzazione quotidiana e perchè sono prigionieri all’interno dei campi, dove il sovraffollamento è evidente. Ad esempio nel campo di Bourj Barajney, in un chilometro quadrato vivono 43.000 persone e questo potrebbe causare un rapido contagio.
La corsa del virus non si ferma, non ha confini. E’ arrivato anche in Israele, nei Territori occupati e a Gaza. Il numero dei contagiati in Israele al 29 marzo è salito a 4.247, di cui 49 in serie condizioni e i decessi sono 15. Il governo di Netanyahu ha dato istruzioni di inasprire le restrizioni per i cittadini e, se nei prossimi giorni non ci sarà un calo nelle infezioni, potrebbe arrivare a chiudere completamente il paese. In quarantena ci sono anche 4.156 soldati, di cui 45 sono positivi. Per la lotta al Covid-19 viene anche utilizzato l’impiego dei servizi segreti israeliani. Lo Shin Bet, infatti, è stato incaricato di tracciare i cellulari dei cittadini e di scandagliare i social per tenere sotto controllo chi eventualmente viola la quarantena e anche di seguire i movimenti dei positivi al virus. In Israele si sta seguendo anche un altro metodo per monitorare, identificare e prevedere le zone di diffusione del virus. Questo metodo, sviluppato dagli scienziati del Weizmann Institute of Science in collaborazione con la Hebrew University di Gerusalemme e su incarico del ministero della salute, così come ci riporta il Sole 24H in un articolo del 28 marzo scorso, si basa su questionari anonimi rapidi da sottoporre al pubblico che identificano l’insorgenza dei sintomi tipici della polmonite da Coronavirus. I dati raccolti verranno confrontati con algoritmi di big data e intelligenza artificiale per creare una mappatura del territorio. Un progetto pilota che ha ricevuto una pronta risposta dai cittadini israeliani con oltre 60.000 questionari. Questa mappatura consente quindi di concentrarsi sulle aree in cui è previsto il focolaio, allentando invece le misure cautelative nelle aree dove il virus non si è diffuso. La versione ufficiale di questo metodo è stata pubblicata sul sito MedrXiv.org, con l’invito ad implementarlo, ed ha già ottenuto una prima risposta dall’Italia e da altri paesi europei (Spagna, Germania e Regno Unito) oltre che da Usa, India e Malesia.
Nei Territori Occupati, a Biddu un villaggio della Cisgiordania si è registrato il primo decesso, una donna di 63 anni e il numero dei contagiati è salito a 99, mentre sono 9 a Gaza. Da subito il Governo palestinese ha dichiarato lo stato di emergenza imponendo alla popolazione limitazioni nella circolazione. Causa l’occupazione israeliana circoscrivere il contagio diventa molto difficile, considerando anche le condizioni precarie in cui è costretta a vivere la popolazione palestinese. Se si pensa poi a Gaza, una striscia di terra di 360 km quadrati con 2 milioni di persone, di cui 1,4 milioni dipendono dagli aiuti dell’Unrwa, che vive da 14 anni sotto continuo assedio israeliano e che ha combattuto tre aggressioni armate, si può facilmente immaginare lo stato in cui si trova oggi con il pericolo di un’epidemia. L’Unrwa ha poi dichiarato che per la sicurezza delle persone, sospenderà la distribuzione degli aiuti alimentari, finché non troverà un modo più sicuro per erogarli. Gli ospedali, stremati da oltre 14 anni di blocco israeliano, non sono in grado di far fronte ad una possibile alta diffusione del coronavirus che può diventare una condanna a morte per i palestinesi ingabbiati in questo piccolo fazzoletto di terra.
Il 97% dell’acqua a Gaza non è potabile, come potrebbero quindi, i medici, infermieri e personale sanitario a sterilizzarsi le mani? Il gel disinfettante è naturalmente introvabile; le norme igieniche basilari spesso non riescono ad essere rispettate; il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e dei posti letto per una terapia intensiva (solo 60 a disposizione) e le gravi patologie che affliggono già la popolazione gazawa, tutto questo, in caso di contagio, porterebbe ad una mortalità molto elevata rispetto al resto del mondo. Hamas, infatti, sta lavorando per creare 1000 stanze di isolamento vicino al confine di Rafah con l’Egitto.
Ma Israele non si smentisce mai! Anche in piena emergenza Coronavirus, bombarda Gaza e mentre anche in Palestina sta esplodendo la pandemia, Israele alza in volo i caccia per sganciare bombe. I medici Gazawi, nel frattempo, stanno convertendo le strutture ospedaliere specializzate nelle cure di ferite da guerra in terapie intensive e reparti di infettivologia, un compito già di per sé complicatissimo vista la restrizione di approvvigionamenti essenziali alla striscia di Gaza imposta da Israele. Un operazione questa, che diventa quasi impossibile d’attuare se Israeliana bombarda nella notte. In una condizione così complicata e di pericolo di pandemia, i bombardamenti notturni sono ancor più un crimine, perché spargendo il panico tra la popolazione aggravano la possibilità di contagio in maniera esponenziale. Israele, forse, con l’aiuto del coronavirus, finalmente riuscirà a cancellare il popolo palestinese.
La questione dei prigionieri palestinesi
In questi giorni ci sono stati molti appelli rivolti al mondo intero, da parte dei prigionieri palestinesi, ammalati e detenuti nelle carceri dell’occupazione israeliana, per non lasciarli da soli a morire nelle loro celle, senza nessuna misura protettiva dal contagio del coronavirus.
Il nuovo virus ha raggiunto infatti le carceri israeliane dove sono rinchiusi oltre 5000 prigionieri politici palestinesi. Un detenuto del carcere di Ashkelon, nel sud d’Israele, è stato messo subito in quarantena insieme ad altri 19 dopo essere risultato positivo a causa di in contatto avuto con un medico israeliano positivo al virus. Altri casi sospetti si sono verificati in altri due carceri, quello di Ramla e Moscobiya a Gerusalemme. I servizi penitenziari hanno annunciato un piano per sgombrare un carcere al confine egiziano per destinarlo ai detenuti contagiati e bloccare anche le visite dei familiari. Le carceri israeliane, come purtroppo anche nel resto del mondo, sono vecchie, sporche, sovraffollate e carenti delle più basilari forniture igenico sanitarie. Nelle celle ci sono normalmente tra i 6 e i 10 detenuti e nei refettori e durante le attività all’aria aperta, si ritrovano insieme più di 120 persone a distanza ravvicinata. I detenuti sono messi solo in quarantena senza avere mascherine, guanti, disinfettanti e un’abbondante quantità di sapone.
La disastrosa situazione delle carceri sono denunciate da anni dagli attivisti palestinesi per i diritti umani, proprio mettendo al centro la deliberata negligenza medica. In passato molti prigionieri sono morti proprio per la mancanza di cure mediche. Un rapporto del 2016, del gruppo Addameer in difesa dei diritti umani, registrava la presenza di almeno 200 prigionieri con patologie croniche, tra cui una ventina di malati oncologici oltre altre decine affetti da disabilità fisiche e psicologiche. Inoltre, una parte molto significativa della popolazione carceraria è formata da uomini di mezza età o anziani. Ora cosa succederà? La caratteristica di questi detenuti rappresenta proprio la fascia di popolazione a rischio per il nuovo coronavirus. La responsabilità di questa situazione è tutta dell’amministrazione carceraria, del governo israeliano e di tutti coloro che si proclamano difensori dei diritti dell’uomo.
“Qui la questione non è solo umana ma politica; ci vuole coraggio e rispetto delle normative internazionali che riguardano i prigionieri in tempo di guerra, anche perché l’emergenza coronavirus riguarda anche ufficiali e guardie carcerarie israeliane. La questione dei prigionieri ha bisogno di un intervento urgente da parte della Croce Rossa Internazionale e dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che devono assumersi la loro responsabilità di fronte all’epidemia globale, nei confronti dei prigionieri, donne, uomini e minori e, in particolare dei prigionieri che hanno gravi malattie o soffrono di malattie respiratorie e di infezioni da trachea. E’ una campana che suona l’allarme per il pericolo che sta per devastare i prigionieri palestinesi e non solo loro, ma tutti coloro che sono privati della loro libertà. Non possiamo essere complici nel privarli della vita.” (Bassam Saleh)
Appello dell’organizzazione Defence for Children International- La Palestina (DCIP)
Chiedere alle autorità israeliane di agire immediatamente per liberare tutti i detenuti minori palestinesi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani a causa della crescente vulnerabilità creata dalla rapida diffusione globale del virus COVID-19 . Salvaguardare il loro diritto alla vita, alla sopravvivenza, allo sviluppo e salute in conformità con il diritto internazionale. I bambini palestinesi incarcerati dalle autorità israeliane vivono vicini l’uno all’altro, spesso in condizioni sanitarie compromesse, con accesso limitato alle risorse per mantenere le routine igieniche minime. L’impatto di COVID-19 è aggravato da queste condizioni di vita che rendono i bambini palestinesi nelle carceri e nei centri di detenzione israeliani sempre più vulnerabili. Non è in alcun modo possibile che le autorità penitenziarie israeliane possano garantire la salute e il benessere dei minori detenuti palestinesi fintanto che continuano a trovarsi in un luogo di detenzione. Al 31 dicembre 2019, secondo gli ultimi dati rilasciati dal servizio penitenziario israeliano, 186 bambini palestinesi sono stati detenuti nelle carceri israeliane. Il diritto internazionale impone che i bambini siano detenuti solo come ultima risorsa, mentre, per i bambini palestinesi detenuti dalle forze israeliane della Cisgiordania Occupata, la detenzione preventiva cautelare è invece la norma.
Oggi, 30 marzo in tutta la Palestina storica si ricorda la “Giornata della Terra “.
In Galilea, il 30 marzo 1976, si furono manifestazioni contro l’espropriazione di 21mila dunam di terre palestinesi per la costruzione di colonie. La polizia israeliana sparò sui manifestanti. Morirono 6 giovani e ci furono molti feriti. Oggi, per la prima volta, nel ricordare questo episodio, né nei Territori Occupati, né nelle città dove vivevano i giovani uccisi, né nelle città europee, non si terranno marce o iniziative, ma sventoleranno solo bandiere palestinesi sui tetti e balconi delle case e uffici pubblici. Lo slogan scelto e adottato dai vari partiti politici: “Sono palestinese, ribadisco la mia identità palestinese”.
Con questa iniziativa non si vuole solo ricordare il 1976 ma anche il 2018, ossia l’inizio della Grande Marcia del Ritorno, iniziata proprio il 30 marzo, un evento molto importante che ha visto la partecipazione di decine di migliaia di palestinesi che hanno marciato per due anni lungo il confine con Israele, rischiando la loro vita, per chiedere la fine dell’assedio di Gaza e l’applicazione della legge del Diritto al Ritorno (Risoluzione n.194 del ‘48) mai voluta discutere dal governo israeliano. Causa Coronavirus, anche questa Marcia è stata sospesa: “Dobbiamo stare a casa” così scrive il comitato organizzatore. (Fonte Nena News – Chiara Cruciati)
02/04/2020