LE DONNE DEL KURDISTAN (2° parte)

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Leggi la 1° parte!

Storicamente la donna, in tutto il mondo, ha sempre dovuto subire differenze sostanziali nei rapporti sociali. Una discriminazione senza confini.

A parte alcuni esempi di società matriarcali, molto lontane nel tempo, il mondo si è sempre retto sul patriarcato. La forma di violenza più usata era quella del “delitto d’onore”. Un tipo di reato caratterizzato dalla motivazione soggettiva di chi lo commette per salvaguardare una forma di onore o reputazione verso alcuni ambiti relazionali come per esempio il matrimonio, i rapporti sessuali e la famiglia. Ancora oggi, in alcune legislazioni, l’onore è inteso come un valore socialmente rilevante di cui bisogna tenerne conto sia ai fini giuridici che in ambito penale.

I modi utilizzati per difendere l’onore spaziano da una violenza fisica, psicologica (privazione della libertà, istruzione, cibo e induzione al suicidio) fino ad arrivare all’omicidio. In ogni circostanza, il modello di violenza maschile resta dominante. Le guerre in genere e i genocidi contribuiscono poi ad aumentare le violenze di genere e l’uso del codice d’onore.

L’emancipazione femminile nel mondo si è sviluppata in tempi e modi diversi.

La donna curda ha iniziato un suo percorso negli anni ‘80 e ‘90 nel momento in cui le donne sono state elette in parlamento, hanno iniziato a prendere decisioni ed a organizzarsi in piccole cooperative per aiutare la famiglia, sono diventate giornaliste, scrittrici, avvocate. Tutto questo anche perché si sono sostituite ai loro compagni, mariti, fratelli, padri, messi in carcere.

Il movimento del PKK ha riconosciuto alla donna curda una doppia oppressione: prima dal colonialismo e poi di genere. Per questo Ocalan ha sempre parlato della necessità di mettere in atto una doppia liberazione della donna. La scelta quindi di seguire il movimento diventava e diventa ancor oggi, un modo per liberarsi dall’oppressione della famiglia, della società e, allo stesso tempo, avere la possibilità di accedere ad una formazione culturale. Non necessariamente questa scelta obbliga la donna a scegliere di andare in montagna a combattere, ma ci sono altri modi per aiutare il proprio popolo, come ad esempio, organizzare seminari, raccolta fondi, insegnare ad altre donne ed attività relative alla comunicazione.

Il movimento femminile curdo è riuscito anche a sviluppare strutture autonome in diversi settori e proprio per questo le donne del Kurdistan oggi sono in grado di poterci insegnare tantissime cose. Grazie alla loro determinatezza e sicurezza, sono in grado di affrontare la dura realtà di una lotta in cui possono trovare la morte. La loro lotta è la lotta di tutte noi. Obiettivo, riuscire ad ottenere una vera parità di genere e non essere più solo madri e mogli.

CAMPO PROFUGHI MAKHMOUR- KURDISTAN BASHUR

Il campo profughi di Makhmour in Bashur, Kurdistan iracheno, si trova in pieno deserto, abitato da circa 13.000 curdi fuggiti dalla Turchia nel 1993 ed è gestito mettendo in pratica il Confederalismo Democratico. I residenti del campo cercano di sopravvivere cercando di non essere dimenticati dalla comunità internazionale intrecciando relazioni con alcune organizzazioni che si occupano di diritti civili. La speranza di poter vedere realizzati i loro sogni, nonostante tutte le difficoltà ed il senso d’abbandono, continua a vivere dentro i loro cuori.

L’Associazione verso il Kurdistan di Alessandria da cinque anni si reca nei territori del Bashur per realizzare un progetto relativo alla costruzione di un ospedale nel campo di Makhmour. Questi viaggi permettono non solo di seguire lo sviluppo di questo progetto, ma anche di conoscere sia la realtà in cui vivono i profughi curdi e sia la situazione di questo paese immerso tra lotte interne, regionali e internazionali. Quello che tutti chiedono è …raccontare, spiegare al mondo, chi sono e cosa vogliono, proprio perché l’informazione diretta di chi ha visto e sentito, è quella che rappresenta la verità. Quasi nessuno sa che esiste un campo profughi in mezzo al deserto che si chiama Makhmour organizzato con un sistema democratico dove le donne contano, dove le donne non sono solo madri e serve e dove da vent’anni una forte resistenza ha permesso loro di continuare a vivere una vita dignitosa e piena di speranze.

Conoscere queste donne, parlare con loro, osservare i loro visi, i loro sorrisi, sentire la loro forza, mi ha riempito il cuore. Sono rimasta, insieme alle altre donne del nostro gruppo, ospite di una famiglia del campo. Ospite può essere una parola fredda, noi in realtà ci siamo sentite subito integrate all’interno di questo nucleo familiare. Vivere per cinque giorni all’interno di questo campo ci ha permesso, attraverso gli incontri con diversi comitati, di capire meglio il sistema del Confederalismo Democratico con il quale s’intende cambiare il tipo di società in cui noi tutti ci troviamo.

Il campo è diviso in 5 zone e ogni zona in 4 quartieri. E’ gestito da due Assemblee istituzionali, una Popolare e una delle Donne. Ogni comitato del campo (istruzione, sanità, ecologia, economia, giovani, gineologia ecc,) ha in queste assemblee un suo rappresentante. Ogni quartiere ha una sua assemblea con l’obbligo di riportare a quella Popolare ciò che è stato discusso e deciso. L’assemblea Popolare è convocata ogni due mesi, mentre quelle di quartiere una volta alla settimana. I problemi sono risolti normalmente nelle assemblee di quartiere, ma se si presentano complicazioni e non sono risolvibili, si passa all’Assemblea Popolare. Ogni due anni c’è il Congresso del campo per eleggere i nuovi rappresentanti delle due assemblee istituzionali.

Nella Assemblea Popolare ci sono due co-presidenti, un uomo e una donna, mentre in quella delle Donne il Presidente è uno solo.

L‘assemblea Popolare è composta da 131 membri e 31 di questi formano il comitato di controllo.

L’assemblea delle donne, nata nel 2013 è composta da 81 donne elette solo dalle donne, di cui 33 fanno parte anche di un Comitato ristretto e di queste, 9 sono co-presidenti nelle varie istituzioni, come per esempio sindaco e assemblea popolare. Ogni istituzione (scuola, sanità, economia, cultura, donne, orfani, lavoro, ecologia, gineologia) vede sempre la presenza di un uomo e di una donna e queste nove donne le rappresentano. Le 33 donne del Comitato ristretto si occupano solo dell’Accademia delle donne. Il loro lavoro è quello di ascoltare, aiutare le donne del campo nei loro rapporti con il mondo maschile, marito, padre, fratelli ma anche con se stesse fornendo informazioni sulla salute femminile, controllo delle nascite, istruzione, educazione dei figli. Da quando è in funzione questa Accademia, si è constatato, infatti, che le donne hanno acquisito maggiore consapevolezza di se stesse proprio grazie alla possibilità di parlare con altre persone disponibili ad ascoltarle ed a cercare di risolvere i loro problemi, paure ed insicurezze. Non sono più sole.

Si sta cercando di uscire da una mentalità di società patriarcale anche se, la maggioranza della società, appartenente ad una fascia di età medio-alta, pensa ancora che la donna sia incapace, non sappia decidere, difendersi, lavorare fuori dalle mura domestiche e che abbia bisogno di un uomo per sopravvivere.

Nel campo non esiste un sistema carcerario. In caso di violenza domestica per prima cosa il Comitato a cui la donna si rivolge cercherà di capire la situazione e successivamente viene convocata un’assemblea popolare pubblica per mettere l’uomo di fronte alle sue responsabilità. L’obiettivo è quello di educare i colpevoli e per fare questo è stato istituito un Comitato degli intellettuali, degli anziani, chiamato “Barba bianca”, ossia dei saggi.

La nuova società all’interno del campo di Makhmour accetta la diversità di genere, il divorzio (in 24 anni solo 10/11 casi) e rifiuta invece il matrimonio con più mogli o con mogli adolescenti. Si sta studiando come affrontare il problema delle ragazze-madri per proteggerle dalle leggi in vigore, anche se per il momento non si è presentato nessun caso. L’Accademia serve anche per imparare a comportarsi nella società tenendo in considerazione il rispetto delle donne.

Nel campo si cerca di mettere in pratica i paradigmi di Ocalan. Ocalan è sempre stato molto sensibile riguardo alla questione della donna e dei bambini e sostiene che, per cambiare una società, la prima rivoluzione passa attraverso la cultura. Per questo, anche in montagna, tutte e tutti gli attivisti curdi trascorrono gran parte del loro tempo a leggere e studiare per approfondire e migliorare la propria cultura, per capire meglio il mondo passato e futuro. I libri in montagna sono nascosti e protetti sottoterra. In montagna la donna è libera ed impara a conoscere la propria importanza.

Nel Centro Giovani, formato da ragazzi e ragazze e organizzato da una Assemblea generale di 70 membri, le ragazze hanno un ruolo attivo, non c’è nessuna differenza tra uomo e donna, tutti possono fare tutto. Parlano, discutono praticamente tutti i giorni, con le persone che vivono dentro il campo per diffondere il concetto del Confederalismo. La rivoluzione culturale è un percorso lungo.

In questo incontro le ragazze ci chiedono cosa facciamo per il popolo curdo. Sono curiose di sapere le nostre esperienze. La loro aspettativa è crescere i figli secondo i principi rivoluzionari.

 

A Makhmour c’è anche una Cooperativa di donne con 50 socie che si occupano di varie commissioni: scuola, lavoro, cultura, artigianato ecc. Le donne del campo possono far parte sia della Cooperativa ed anche dell’Accademia. Incontriamo cinque insegnanti che fanno parte della commissione scuola che coordinano cinque asili con 250 bambini iscritti. Nel settore dell’artigianato, c’è un laboratorio di sartoria con 10 donne che confezionano abiti, divise, tappeti e kefie e un laboratorio artistico dove si insegna pittura e dove sono esposte varie opere. Quest’ultimo è un centro aperto dal 2004 con cinque insegnanti che si alternano per far apprendere, sia ai ragazzi che agli adulti, l’arte di raffigurare il mondo esterno ma anche di riuscire ad esprimere i propri sentimenti, la propria anima attraverso disegni e colori.

L’occasione di un pranzo offerto da una famiglia del campo ci offre la possibilità di raccogliere una breve testimonianza della mamma della padrona di casa. Ci parla di un intenso dolore che parte da lontano ma che non ha mai fine. Hikmet, il nostro interprete, è costretto a fermarsi. Non ha più la forza di sentire quelle parole che lo portano a dover ricordare un proprio triste e doloroso passato sempre presente, impossibile da dimenticare. Entrambi nel ripercorrere a ritroso il loro vissuto si bloccano, le lacrime scendono dagli occhi stanchi. Hanno visto troppa sofferenza e dolore.

La nonna inizia subito con una domanda: “Tutto il mondo ha un proprio stato, perché noi no? “ Poi continua: “Perchè siamo terroristi. Noi veniamo ammazzati. Ammazzano donne, donne incinte, bambini, ragazzi, vecchi, ma noi restiamo i terroristi. Sono 40 anni che soffriamo. 20 anni sotto tendoni di plastica e altri 20 in Turchia. Sempre in fuga da un posto all’altro per scappare da case, villaggi distrutti, bombardamenti, carcere e torture. Noi vogliamo il nostro Presidente libero, non più in prigione, non ha fatto niente. Ha solo difeso il suo popolo. La mia famiglia è stata divisa. Io sono scappata dalla Turchia nel 1992. La mia casa era stata bombardata da armi pesanti”. Si arresta. Qui si interrompe il suo racconto. Non ci resta altro che guardarla negli occhi tristi e carezzarle il viso mentre la rabbia mi assale all’improvviso. Sto pensando alla campagna razzista nei confronti degli immigrati nel mio paese e nel mondo. Chi mai si è fermato anche solo un attimo per capire a fondo il problema? Nessuno mai cerca di comprendere veramente cosa c’è dietro ad una fuga in mare o via terra? Nessuno conosce le storie personali di queste persone. Nessuno le vuole conoscere. Non sapere è meglio, è più semplice, non fa male e non ti obbliga a prendere una posizione.

Vicino all’anfiteatro si trova la sede del Centro Culturale gestito da un Comitato dell’assemblea culturale. L’attività principale è il canto tradizionale. La storia curda è sempre stata raccontata attraverso il canto. Ogni avvenimento, anche il più cruento, veniva raccontato attraverso le canzoni. L’attività culturale è sempre stata portata avanti anche quando questo centro non c’era, non è mai stata abbandonata, perché avrebbe significato perdere la propria identità. Anche qui chi ci spiega come funziona il centro è una donna. Una donna che canta e che ci sottolinea con piacere che al Centro ci si chiama “Compagna o Compagno”, nel senso di compagno di idee, anche tra familiari. Le origini delle canzoni provengono dal Bohtan, una regione montana turca a sud-est dell’Anatolia, dove il capitalismo non ha trovato terreno fertile, mantenendo così una tradizione della cultura curda viva e non contaminata. Oltre al canto ci sono anche altre attività come il teatro, la danza, il cinema. Il centro non ha mai utilizzato insegnanti esterni, ma sono loro stessi che insegnano. Tutte le arti sono tramandate dalle vecchie generazioni ai giovani. La forza di questo centro sono proprio i giovani con la loro “Assemblea dei bambini” dagli 8 ai 18 anni, di cui il Comitato è solo portavoce, mentre invece sono proprio i giovani che si riuniscono e decidono cosa vogliono fare. Molti bambini di questo campo sono orfani o hanno subito traumi di guerra, per questo nei loro confronti si è sviluppata una forte attenzione. Si cerca così in qualche modo di offrire un mondo diverso, ma soprattutto un mondo scelto da loro. E’ un modello unico nel suo genere in un campo profughi curdo. Un modello importante per tutto il mondo.

IL RICORDO DI DENIZ FIRAT E AVESTA HARUN

Un pomeriggio verso il tramonto andiamo sulla montagna rocciosa sopra il campo. Durante il tragitto, comincio a ricordare il racconto del libro di Marco Rovelli “La guerriera dagli occhi verdi”. Mi prende l’ansia. Tra poco sarò negli stessi luoghi dove nel 2014 si svolse la resistenza curda contro l’Isis e dove morì la giornalista Deniz Firat. Il libro, attraverso la narrazione della vita della comandante Avesta Harun, riesce a descrivere in un modo semplice e chiaro la resistenza del popolo curdo, sottolineando i valori e l’importanza di questa lotta. Lotta che dovrebbe essere di tutti e non solo di questo popolo. Avesta, ovvero Filiz nella vita, quando sceglie la montagna, ha solo 22anni, prendendo il posto del fratello Tekin, dal nome di battaglia di Harun Van, ucciso in montagna. Avesta è il nome dei testi sacri zoroastriani, significa “lode” e Filiz ha deciso così, adottando questo nome, di radicarsi in quelle terre di montagne e di affondare le sue radici indietro di millenni. Devo ammettere che il libro mi ha molto coinvolto sia per il suo dettagliato racconto e sia perché avendo conosciuto tutti i luoghi descritti, mi sentivo totalmente partecipe degli avvenimenti descritti. Le montagne di Van, i suoi villaggi, Qandil, il campo di Makhmour e tutti i loro abitanti. Come si fa a rimanere indifferenti?

Deniz Firat non è stata una semplice giornalista, ma una partigiana curda che aveva scelto la strada della montagna quando aveva solo 12anni (1992). Era andata con il padre e la sorellina più piccola a trovare la sorella più grande che era sui monti da qualche anno. Ma, dopo pochi giorni, scoppiò la guerra con i peshmerga di Barzani che durò quasi tre mesi. Nei successivi sette anni, Deniz perse un fratello e le due sorelle. Il resto della sua famiglia, compreso il padre, arrivò a Makhmour e lì sono rimasti. Così quando nell’agosto 2014 il campo fu attaccato da Daesh, Deniz era comparsa in televisione per mostrare le immagini dell’attacco. L’arma con la quale Deniz combatteva era la sua telecamera. Raccontare, informare il mondo sulla situazione del suo popolo. Anche per Avesta, Makhmour rappresentava il cuore dell’esilio del popolo curdo. (vedi: http://nena-news.it/kurdistan-iracheno-il-campo-profughi-di-makhmour-ii-parte/)

Deniz si trova sulla collina sopra il campo, scava trincee insieme ad altri compagni, accumula pietre per formare un muro di difesa ai razzi del nemico. Guarda il campo deserto sotto di lei, inizia a riprendere per far conoscere al mondo la verità di quell’aggressione. Tre banditi di Daesh che si trovano lungo la mulattiera che passa tra le collinette del campo, iniziano a sparare. Deniz viene colpita al cuore da un pezzo di una bomba di mortaio. E’ ferita, i compagni la portano subito su un’auto verso l’ospedale di Erbil, ma Erbil è troppo lontana e Deniz muore.

Avesta guida l’attacco contro Daesh con l’immagine di Deniz nel cuore. Il campo di Makhmour è liberato, ma ci sono altri 5 piccoli villaggi della città da liberare. La liberazione programmata alla fine viene portata a termine. Avesta, mentre più tardi controlla con il binocolo lo spazio circostante alle postazioni di difesa, nota un piccolo villaggio occupato dai nemici che non era stato considerato. Raduna quindi una piccola squadra e parte all’attacco. Ma purtroppo all’ingresso del villaggio, la squadra viene investita dal fuoco nemico. Rispondono all’attacco ma Avesta viene ferita. Alla fine i banditi si ritirano e il villaggio è salvo. Avesta viene caricata su una macchina ma l’auto salta su una mina e lei viene sbalzata fuori. Arriva un’altra macchina, ma Avesta muore prima di arrivare al campo di Makhmour.

Il campo di Makhmour non ricorda solo Deniz e Avesta, ma anche un’altra splendida figura femminile: Sakine Cansiz.

Sakine tutte le volte che andava in Iraq si fermava sempre al campo. La prima volta si fermò per cinque mesi e tutti i giorni alle cinque del mattino faceva un’ora di corsa, poi la scuola e, al termine, altri esercizi di ginnastica. A quell’epoca c’erano i soldati di Saddam ma Sakine non aveva paura e camminava a testa alta. Parlava sempre con calma, ma con voce forte. A Makhmour, Sakine preparava i materiali per le classi, cuciva i vestiti per la scuola, insegnava a fare gli insegnati e faceva riunioni con gli abitanti del campo. Ha dato avvio ad un asilo nido e ad una scuola d’arte per le ragazze. Sakine diceva:”Perchè dobbiamo avere paura di un maschio? Siamo tutti esseri umani allo stesso modo.” Il senso della sua vita era educare la gente.

SULEYMANIYA                             

La nostra visita al campo di Malhmour è finita. Il viaggio continua verso Suleymaniya. Dopo aver visitato il Museo Carcere di Saddam Hussein e il coloratissimo mercato con i suoi venditori e le merci esposte nei negozi, sulle bancarelle, sui carretti o semplicemente a terra, proviamo ad entrare in alcuni campi profughi.

Non abbiamo un permesso, ma non ci perdiamo d’animo e ci dirigiamo subito al campo di Barika nella zona di Arbat, dove siamo già stati due anni fa. E’ un campo gestito da UNHCR con all’interno una struttura di Emergency con medici italiani. Purtroppo, senza permesso non ci fanno entrare!

Stesso risultato per il secondo campo. Proviamo con il terzo, il più piccolo. Il militare all’ingresso ci fa passare. Scendiamo velocemente dalle auto per addentrarci tra le strade del campo e cercare qualche responsabile per avere alcune informazioni.

Iniziamo a camminare nella strada principale del campo sotto un bel sole cocente e subito siamo accolti da donne, ragazze, bambini, anziani che ci circondano felici di vederci e di farsi fotografare. Sembra che, a parte i profughi, non ci sia nessun altro. Arriviamo in fondo alla strada e troviamo una costruzione che sembra essere una specie di pronto soccorso. Riusciamo a parlare per pochi minuti con un ragazzo che ci illustra un po’ la situazione del campo. Qui si trovano circa 2.500 persone, tutte irachene scappate dal governatorato di Salah al-Din causa l’invasione da parte dell’Isis. Dovrebbero essere sotto la tutela del governo iracheno ma nessuno si occupa di loro. Il direttore del campo si trova nel campo grande di Arbat. Prima c’era anche un medico, per un’ora al giorno, ma ora, causa la mancata firma del nuovo contratto, non viene più. In caso di una grande emergenza sanitaria, è possibile portare il malato all’ospedale del campo grande, ma dietro un compenso economico. L’improvvisato portavoce del campo chiede a nome di tutti il nostro aiuto. Hanno bisogno di tutto, la situazione è pesante, sono isolati e sono sprovvisti di ogni cosa. All’improvviso arriva la guardia che prima ci aveva fatto passare, intimandoci di lasciare subito il campo in quando sprovvisti di un permesso. Sembrava preoccupato e agitato. E così, anche se con molto dispiacere, abbiamo lasciato il campo e tutte quelle persone in attesa… di chissà quale aiuto!

LA VOCE DELLE DONNE “JIN TV”

La prima trasmissione di prova della nuova emittente televisiva “JIN TV” è iniziata nella Giornata internazionale della donna, l’8 marzo 2018. Ci troviamo nella loro sede a Suleymaniya e parliamo con Nurhak (in curdo significa “montagna”). Dopo le prove, le trasmissioni del nuovo canale sono iniziate il 30 giugno scorso. Una TV di donne, per le donne, con l’obiettivo di rendere visibile qualsiasi lavoro femminile, dalla casa, dai campi, uffici, strade, ovunque e di mettere in discussione il rapporto uomini e donne e tutta la società. La stampa si basa principalmente sul pensiero e sensibilità del maschio, nonostante la presenza di molte giornaliste donne, e per questo, questa rete vuole riunire tutte le donne, i problemi, le sfide, la speranza, la disperazione e il linguaggio. L’invito di Jin TV, durante il periodo di prova di trasmissione, lanciato alle donne è stato questo: “Realizza il tuo video a casa, sul posto di lavoro, per strada, ad una riunione, inviaci il video e partecipa a questo movimento televisivo, abbiamo bisogno di te. Discutiamo insieme. Facciamo programmi insieme. Avviciniamoci a quelli che sono lontani, mettiamoci insieme”.

Nurhak ci dice che è necessario iniziare dalla cultura. La Mesopotamia è stata la culla della civiltà, quindi, occorre ripartire da lì per recuperare il ruolo importante avuto dalla donna. Dalle idee sono passate ai fatti. Dopo aver verificato tutte le varie possibilità per arrivare ad un buono e sicuro funzionamento della TV, hanno deciso di creare la loro sede legale in Europa, in Olanda, e non in Medio Oriente per le difficili situazioni di sicurezza. Gli studi di registrazione si trovano comunque in molte diverse città, oltre qui a Suleymaniya, come per esempio nel Rojava, Istanbul, Diyarbakir dove vengono montate le registrazioni ed inviate poi in Olanda per la diffusione. La particolarità si trova in Rojava dove è possibile fare anche delle dirette TV. Nurhak, inoltre, ci fa presente che molte donne che oggi lavorano a Jin TV hanno un’esperienza maturata nello stesso ambiente televisivo fin dal 1995 e, grazie a questa professionalità, sono riuscite a portare a termine questo progetto. Ci mostra infine un esempio di un loro video che racconta la vita di una donna casalinga di un piccolo paese intenta a macinare. Una donna inconsapevole di tutto quello che la circonda! Per intervistare una donna occorre avere il consenso del marito. Per prima cosa, quindi bisogna educare l’uomo. Jin TV vuole mostrare la realtà delle donne e la loro reale lotta. Mostrare la donna indebolita con la possibilità di riacquistare forza e coraggio. Mostrare la donna che studia la storia invece che ascoltare la versione scritta dal potere. Lo staff della “Jin TV” è composto solo da donne, nessun uomo ne fa parte, con trasmissioni multiculturale, multidirezionale e multilingue (Sorani, kurmanci, Gorani, arabo, turco) . Contro i media internazionali che normalmente rifiutano le diversità, questa televisione è basata invece sulla pluralità. Grazie anche alla rivoluzione in Rojava, si è sviluppata una forte cultura delle donne. Loro sanno che niente succede per caso. I cambiamenti richiedono coscienza, conoscenza, decisione, volontà e pratica. La cosa più importante però è dare voce a questi movimenti, a queste lotte, per poter arrivare al popolo. La voce deve essere forte e chiara e rispettare la realtà per controbattere le falsità prodotte dal nemico che continua a dipingere le molte donne coraggiose del Kurdistan solo come terroriste. Il progetto Jin TV è stato fondato il 09/01/18, anniversario delle rivoluzionarie Sakine Cansiz, Fidan Dogan, Leyla Saylemez, assassinate a Parigi dai servizi segreti turchi nel 2013.

Nurhak continua il suo racconto elencando i tre fondamentali principi a cui si attengono: ecologia – libertà per le donne – democrazia. Inoltre, precisa che, per il fatto che il loro lavoro è solo agli inizi, sono controllate a vista, e questo impedisce loro di poter raccontare tutto quello che vogliono, come per esempio, la vita delle donne in montagna o in carcere, ma sperano di poterlo fare al più presto. Quello che temono è infatti la possibilità di essere oscurate. Le loro trasmissioni si possono seguire sui canali Youtube. Incontrare Nurhak e conoscere questa bellissima esperienza, mi ha molto stimolato. E’ un esempio di lavoro da dover copiare.

SITUAZIONE  CURDA IN  IRAN

Il Kurdistan non è, da sempre, uno Stato unico. Il popolo curdo, così ci racconta la storia, ha vissuto da sempre su una terra di confine tra l’Impero Romano e l’Impero Persiano. I curdi hanno per secoli governato ampie zone dall’Egitto all’Iran senza però essere autonomi e sovrani. Sono una popolazione molto numerosa con una forte identità e con il desiderio di una propria autonomia territoriale. La prima guerra mondiale portò alla rottura degli equilibri in Oriente. Il Trattato di Losanna del 1923 segna il tradimento delle potenze europee nei confronti degli impegni presi con le popolazioni curde e armene. Viene decisa la divisione del Kurdistan ottomano fra tre Stati (Turchia, Siria, Iraq) mentre il Kurdistan orientale era già incluso nei confini dell’Iran (Rojhilat). I curdi sono così privati, ancora una volta, della loro autonomia in nome di scelte politiche internazionali. I confini si disegnano così con una matita su una carta geografica senza il minimo interesse verso il popolo stesso.

Incontriamo due attiviste dell’Organizzazione Kejar (Unione delle donne libere del Rojhilat), Ciwana e Berivan. Due splendide compagne con le quali sono subito entrata in sintonia nonostante la difficoltà linguistica. Siamo riuscite a capirci e a creare una profonda atmosfera di amicizia. La loro attività si svolge sul confine iraniano.

I curdi sotto il dominio di Reza Kkan (1921) furono privati dei diritti nazionali e questo stato di repressione continuò fino alla seconda guerra mondiale quando l’Iran fu occupata dai britannici e dai sovietici. Tra i due occupanti, il Kurdistan era diventato una terra di nessuno e nel 1941, quando salì al trono il figlio dello Scià, Reza Pahlavj, fu proclamata la Repubblica di Mahabad, che durò solo un anno. A Mahabad fu coniata la parola “Peshmerga”, colui che è votato alla morte per la vita del Kurdistan. La repubblica di Mahabad ha un’importante valore storico, riconosciuto ancora oggi, in quanto i curdi sono riusciti a realizzare uno Stato di fatto indipendente. Sotto il potere di Reza Pahlavi il Kurdistan è militarizzato ed ogni movimento della popolazione è sotto controllo. La repressione anticurda non si manifesta solo con il carcere, campi di concentramento ma anche con un’oppressione economica e culturale. Nel 1978 inizia la rivoluzione islamica con grandi sollevazioni popolari guidate dal ayatollah Khomeyni. Il popolo curdo aveva sperato molto in questo cambiamento, sperava di vedere legittimato le sue aspirazioni d’autonomia. Purtroppo questo non è avvenuto. Khomeini, infatti, aveva promesso ai curdi, durante il suo esilio a Parigi, autonomia e diritto di vivere in pace e libertà, invece dopo poco tempo dal suo ritorno in patria, dichiarò guerra ai curdi affermando che “uccidere un Curdo non è peccaminoso, perché erano degli infedeli, in quanto tolleranti, e soprattutto non erano fanatici”. Anche durante la presidenza di Khatami i curdi avevano sperato in una soluzione pacifica al loro problema, ma sono sempre state promesse non mantenute.

In Iran, ci dice Ciwana, ci sono sempre stati molti partiti di sinistra sia sotto lo Scià che con Khomeyni, in opposizione al governo. La posizione più colpita è sempre stata quella dei curdi. Non è possibile stimare con precisione la composizione della popolazione curda per vari motivi dovuti all’incertezza dei dati censuari, alla mobilità della popolazione e alla sua distribuzione in parte a nordovest e in parte a nordest. Si calcola quindi che circa 4/5 milioni di curdi siano residenti nelle province occidentali, 2/3 milioni invece in quelle del Nordest ed 1 milione nella provincia di Teheran. Rappresentano il terzo gruppo etnico del paese dopo i persiani e gli azeri.

I due partiti d’opposizione sono il Partito Democratico del Kurdistan d’Iran (Pdki), fondato del 1945, il più longevo partito, oggi ancora attivo e l’Organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori del Kurdistan (Komala) d’ispirazione maoista. Con la cattura di Ocalan nel 1999, è esploso poi il nazionalismo curdo, con una grandissima manifestazione a suo favore. Molti giovani sono entrati nella guerriglia e nel 2004 nasce una nuova formazione di stampo nazionalista denominata “Partito per una vita libera in Kurdistan” (Pjak), considerato un’organizzazione terroristica da Iran, Stati Uniti e Turchia. Il Pjak rappresenta quindi l’evoluzione dello scontro dei curdi impegnati nella lotta armata contro le autorità dello stato invocando l’indipendenza e l’autodeterminazione del Kurdistan iraniano. Con la nascita di questa organizzazione, i vecchi classici partiti perdono nel popolo potere e speranza. Il Pjak dopo essersi organizzato da solo e radicalizzato tra i civili, ha formato l’ala militare e politica. L’ala politica “Kodar” (il Congresso della Società Libera e Democratica del Kurdistan Orientale) ha sede in Europa e in Iraq ed opera in Iran in modo molto silenzioso. Alla fine del 2017 sono iniziate molte proteste da parte della popolazione in diverse città per ottenere libertà e diritti fondamentali.

L’Iran vuole diventare una forza unica in Medio Oriente e, per questo, il regime cerca di imporre alla società la propria mentalità. La popolazione si trova sotto totale controllo ed i partiti di sinistra, non potendo più lavorare all’interno del paese, sono costretti a fare opposizione dall’estero.

La politica iraniana si basa sulla repressione e sulla paura. Il lavoro dell’Organizzazione Kejar, continua Ciwana, è contro il sistema, con attività organizzate militari. Sono guerrieri e come tali operano in clandestinità ovunque c’è bisogno. L’Iran è il paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite al mondo. Lo stato uccide per traffico di droga, omicidio, rapina, guerra a Dio, atei, stupro, adulterio e naturalmente per reati di natura politica e terrorismo. In realtà molte uccisioni per reati comuni nascondono omicidi di oppositori politici o appartenenti a minoranze etniche come curdi, azeri, baluci e ahwazi. Per queste persone i processi sono rapidi e severi e si risolvono con la pena di morte. L’impiccagione è il metodo più usato e si continua ad uccidere anche in pubblico.

In Kurdistan, causa la forte povertà, per sopravvivere usano il contrabbando, anche se questo porta l’uccisione di 2 o 3 persone quasi ogni giorno.

La condizione della donna in questo contesto è facile da immaginare: non possono fare niente in piena autonomia, né tanto meno organizzarsi in politica e le pene, in caso di reati, sono molto più severe rispetto al maschio. Se una donna si rifiuta di sposare un uomo che invece ha deciso di volerla, l’uomo in questione può usare l’acido nei suoi confronti, per impedirle così di poter scegliere in altro modo. La situazione in Iran però è quasi al collasso, la popolazione è disperata, quindi potrebbe succedere di tutto. Il Kodar, Kejar e Pjak hanno presentato al governo iraniano progetti per cercare una soluzione democratica a tutti questi problemi, ma il governo non ha accettato e come risposta ha ucciso tre giovani combattenti che si trovavano in carcere.

Il partito Kamala invece ha una sua diversa strategia: aspetta un possibile intervento americano per poi accodarsi e combattere il regime. Il Pjak non è d’accordo con questa strategia, rifiuta di chiedere ad altri stati d’intervenire con le armi perché la popolazione si può organizzare in maniera collettiva per contrastare il regime ed ottenere giustizia. Il movimento Kejar, dal momento che operano fuori dal paese, sono in grado di mettere in rete il loro pensiero, le attività, la politica e la condizione della donna, senza nessun problema. Sperano anche di poter mettere in pratica anche in Iran la proposta che stanno facendo in Europea di una “Democrazia dei Popoli”, ossia di mettere insieme tutte le forze di sinistra per contrapporsi ai regimi dittatoriali.

Alla fine, Ciwana e Berivan chiedono a noi cosa possiamo fare. In Italia riusciamo ad avere rapporti con il popolo curdo della Turchia, Iraq e Siria, ma non quello dell’Iran. E’ una situazione molto delicata e complicata.

REPACK – Centro Curdo per le questioni femminili

L’Associazione delle donne Repack è stata fondata nel 2014 e si occupa di ricerca dei problemi femminili in tutte le quattro parti del Kurdistan. La base è sempre il Confederalismo Democratico. Il loro lavoro è trasversale, in quanto danno informazioni sulle necessità delle donne e, nello stesso tempo, offrono a loro stesse supporti logistici e politici, mettendo in rete tutte le donne curde e non, in tutte le quattro le parti del Kurdistan e in Europa.

Durante gli attacchi dello Stato islamico nel Kurdistan meridionale nell’estate del 2014, il loro ufficio era diventato un importante punto di riferimento per giornalisti, attivisti, delegazioni che si recavano in Kurdistan. Inoltre, nell’ambito di varie conferenze ed interviste, hanno reso pubbliche le informazioni sulla situazione delle donne yezide.

Il sistema patriarcale in Medio Oriente purtroppo non è diminuito, esiste come esiste anche nel resto del mondo, unica differenza che in Europa non è evidente, è nascosto dentro le mura domestiche. In M.O. la lotta contro questo sistema acquisisce energia e forza dalla situazione della donna nell’antichità, quando era lei al centro della società. Con il Confederalismo Democratico il ruolo della donna è visibile. Si deve partire da un lavoro collettivo. Il percorso da fare richiede molto tempo ma solo attraverso questo sistema il ruolo del maschio può perdere potere. Le donne del Repack che incontriamo si dicono felici nel sapere che dietro di loro esiste un esercito di sole donne. (YPJ, Kongra Star ecc.) Nella realtà dei fatti, la loro lotta per una rivendicazione di parità è rivolta anche all’interno della loro comunità e non solo contro una mentalità di stato. La donna può anche fare politica, ricoprire ruoli importanti, ma la vita quotidiana è un’altra cosa. In questa regione ha sempre comandato il maschio e cambiare i ruoli non è certamente facile. Da considerare poi che durante le guerre, sono le donne che subiscono di più.

Poco dopo il referendum per l’indipendenza del Kurdistan iracheno proclamato da Barzani nel settembre 2017, l’Iran chiude le frontiere ed invia truppe al confine, la Turchia sospende i collegamenti aerei, il governo iracheno intensifica i controlli delle frontiere ed invia truppe verso Kirkuk. In questo contesto, l’esercito centrale iracheno con l’aiuto delle milizie sciite iraniane di Hashd al-Shaabi hanno attaccato e occupato diverse città a sud di Kirkuk e a Tuz Khurmatu. Le milizie iraniane entrate poi a Tuz Khurmatu hanno violentato 200 donne. Molte di queste donne sono state poi uccise o dagli stessi violentatori o dai propri familiari per la vergogna subita.

Il Repack è formato da molte persone che sono radicate in ogni settore della società. In questo modo possono fornire prima di tutto informazioni utili da poter analizzare per risolvere quei problemi per loro importanti. Insegnano a tutte le donne senza distinzione di etnie. Per le violenze domestiche a Sulaymaniyah non possono muoversi apertamente, devono intervenire praticamente di nascosto, è difficile ma cercano di non lasciarle da sole. In Turchia invece la guerra contro le donne non è apertamente visibile, viene esercitata attraverso leggi stabilite da Erdogan, come per esempio la possibilità di sposarsi a solo 12/13 anni.

La situazione della donna che vive nei villaggi è migliore rispetto a quella che vive in una grande città, perché nei piccoli centri esiste ancora un sentimento di umanità che unisce le persone. Le donne del Repack hanno contatti con le donne in Rojava e con le yezide, nessuno invece con quelle della zona di Barzani. A Kobane è stato ultimato il progetto “La Casa delle donne”, dove vengono accolte anche donne che sono state allontanate dalla propria famiglia. La Casa svolgerà la funzione di Accademia delle donne, luogo di formazione, di studio, di prevenzione e attività lavorative che possano creare reddito alle donne stesse. La cosa importante è che le donne escano di casa, che possano raggiungere una propria autonomia, conoscere i propri diritti e che imparino a rapportarsi con il maschio senza sentirsi inferiori.

Le donne curde possono essere un esempio per tutte noi, specialmente oggi in cui i nostri diritti sono sotto attacco attraverso nuove normative o tentativi di annullare e cambiare quelli in essere, ottenuti con determinazione e lotte negli anni passati. Lo strumento migliore resta comunque l’unione e la formazione culturale.

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Fonti: Libro “La guerriera dagli occhi verdi” di Marco Rovelli

Libro: “Curdi” di De Biasi-Caputo-Chomani-Pedde