“ISRAELE SIAMO NOI” SINTESI SIONISTA DI UN ATTACCO

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In questi giorni mi capita d’imbattermi nell’espressione “Israele siamo noi”.
Trovo che sia una buona sintesi delle opinioni dei sostenitori di Israele, della percezione di se stessi e del loro ruolo sociale, non solo di militanti di ‘destra’, ma anche di giornalisti, intellettuali e altri opinion maker. Altri vanno oltre il generico “Israele siamo noi” e si definiscono ‘sionisti’, seguendo l’esempio del presidente statunitense Biden che ama ripetere di essere ‘sionista’ perché: Mio padre mi ha detto che non è necessario essere ebrei per essere sionisti”. Come a dire che il sionismo è radicato negli USA da generazioni e non interessa solo gli ebrei, ma riguarda tutti.

di Wasim Dahmash*

Anche in Italia non mancano intellettuali e personaggi in vista che si definiscono “sionisti appassionati”. Non so ovviamente cosa pensano e come intendono il sionismo, probabilmente lo concepiscono come ‘cosa buona e giusta’. Ma posso dire cosa pensano e come l’hanno vissuto i palestinesi. Il sionismo significa per noi palestinesi il furto del nostro paese e il tentativo di furto della nostra storia.

Il furto, come tutti sanno, ma pochi vogliono ricordare, è stato possibile grazie all’occupazione britannica della Palestina e soprattutto grazie alla pulizia etnica attuata dalle milizie sioniste organizzate e sostenute dalla Gran Bretagna, quelle che sono diventate esercito israeliano. Un esercito che ha continuato la pulizia etnica dopo la costituzione dello Stato d’Israele nel 1948, espellendo 962.000 persone (unica statistica affidabile, è quella dell’ONU). Una pulizia etnica che i palestinesi hanno subito ancora una volta nei territori palestinesi conquistati da Israele nel 1967.

I dirigenti israeliani continuano a ripetere di voler continuare “il lavoro iniziato nel 1948” e oggi lo sostiene Netanyahu il quale, non appagato dalla pulizia etnica strisciante di Gerusalemme e Cisgiordania, vorrebbe ripetere ‘il colpo’ a Gaza con gli stessi metodi a lungo sperimentati: uccidere il più grande numero di ‘indigeni’ in modo da creare il panico e spingerli ad andarsene. Questo è il senso dell’ordine di andare verso sud dato dall’esercito israeliano a un milione di palestinesi di Gaza. Quando i primi coloni sionisti arrivano in Palestina, i palestinesi, preoccupati chiedono l’intervento del governo centrale di Istanbul, perché i coloni vanno in giro armati.
I coloni sono armati dalla Gran Bretagna che occupa la Palestina con l’intento dichiarato di trasformarla in una colonia per ebrei europei e che subito comincia a modificare il sistema delle leggi, a trasferire proprietà ai coloni, a espellere i contadini palestinesi dalle terre che coltivano da secoli e soprattutto a organizzare un esercito sionista che darà prova delle sue capacità militari contro la popolazione civile.

I palestinesi sperimentano il sionismo soprattutto quando il paese viene consegnato alle bande armate sioniste che espellono tutti gli abitanti, a suon di stragi e massacri, dalle regioni che man mano occupano.

     

Oggi, i profughi palestinesi registrati dall’ONU sono 5.800.000 di cui oltre 2.000.000 si trovano nei territori occupati da Israele nel 1967. Se i profughi hanno assistito al furto delle loro terre e delle loro case, degli averi personali, del loro paese, della loro storia, della loro arte e di tutto ciò che forma un paese normale, coloro che non hanno subito quella sorte vivono sotto un regime di apartheid.

Basterebbe un solo esempio: un bambino israeliano è considerato incapace di intendere e volere fino al superamento del quattordicesimo anno d’età, mentre un bambino palestinese sotto i quattordici anni può essere giudicato da un tribunale militare e condannato ad anni di carcere perché ‘sospettato’ di aver lanciato una pietra contro soldati armati di tutto punto. Senza parlare della continua demolizione di case, delle irruzioni notturne dei soldati, dei pogrom effettuati dai coloni protetti dai soldati, ecc.

    

Il discorso dell’‘Israele siamo noi’ non riguarda solo la ‘destra’, ma ha una dimensione che abbraccia tutta l’Europa e le sue estensioni coloniali. Ed è del tutto comprensibile: Israele è l’ultima colonia dell’Europa e il suo successo rappresenta una ‘ricompensa’ per l’esaurimento dei vecchi progetti coloniali.
Molti paesi che hanno subito il dominio coloniale hanno ottenuto l’indipendenza, formale nella maggior parte dei casi, effettiva solo in alcuni.

Altri colonialismi d’insediamento hanno avuto pieno successo, come in America, Australia, Nuova Zelanda, ecc. ma sono ormai “normalizzati” essendo riusciti a eliminare le popolazioni indigene e a sostituirle con nuove comunità coloniali. Altri ancora sono falliti, come in Algeria o in Sudafrica.

Non è il caso di Israele che da una parte ha potuto occupare l’intero territorio della Palestina mandataria, oltre a territori siriani e libanesi, ma non è riuscito a eliminare gli indigeni, cioè i palestinesi, nonostante i ripetuti massacri, a cominciare da quello del 1948. Dopo 75 anni di continui tentativi infatti, gli indigeni sono ancora maggioranza nel territorio.

Il genocidio strisciante che Israele porta avanti nei territori occupati nel 1967, intervallato da massacri come quelli di Genin del 2002 o del 2023 oppure quelli di Gaza del 2008-9 o del 2014, non ha portato al risultato sperato, ovvero provocare un esodo di massa dei palestinesi come quelli del 1948 o del 1967.

È di questi giorni l’invito del primo ministro israeliano Netanyahu rivolto agli abitanti di Gaza di andare via, nel Sinai, unico territorio attiguo a Gaza non occupato dagli israeliani. Lo scopo è quindi dichiarato: continuare la pulizia etnica della Palestina iniziata settantacinque anni fa e mai interrotta. L’espulsione, nella politica coloniale israeliana, è un primo passo che, nella prassi ormai consolidata, è seguito da pratiche tendenti a disperdere i profughi, spesso con intensi bombardamenti sulle tendopoli.
È successo appena costituito lo Stato israeliano che ha cominciato a bombardare i profughi nella striscia di Gaza già nell’ottobre 1948, per continuare in Giordania, in Libano e in Siria.

Il massacro di questi giorni a Gaza dovrebbe portare, secondo Netanyahu, ad ‘alleggerire’ il peso demografico palestinese liberandosi di una fetta consistente della popolazione di Gaza, per potersi dedicare, con maggiore agio, alla pulizia etnica di altri territori, da Gerusalemme e la Cisgiordania alla Galilea. Il governo israeliano potrebbe allargare ancora di più il consenso mondiale al massacro e all’espulsione dei palestinesi di Gaza alimentando la campagna propagandistica con fake news che presentano i palestinesi come massacratori di bambini, e che altri forse in buona fede ripetono.

* – (Damasco 1948) è ricercatore di Lingua e Letteratura araba presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Cagliari. Tra il 1985 e il 2006 ha insegnato Dialettologia araba all’Università di Roma La Sapienza. I suoi ambiti di ricerca si concentrano principalmente sulle questioni attinenti la traduzione letteraria, la dialettologia araba e le letterature migranti, in particolare degli scrittori e poeti arabo/palestinesi. In qualità di saggista ha pubblicato Elementi di arabo damasceno (2010), Testi per lo studio del dialetto di Damasco (2005), Palestina: un paese sparito (1992), Voci palestinesi dell’intifada (1989) e Palestina: versi della resistenza (1971). Ha inoltre curato molti volumi di poesia araba. Per la Ilisso ha tradotto e scritto la postfazione al libro Dentro la notte. Diario palestinese (2004).