Sono cinque anni che l’Associazione verso il Kurdistan di Alessandria si reca nei territori del Bashur per realizzare un progetto relativo alla costruzione di un ospedale nel campo di Makhmour. Questi viaggi ci permettono non solo di seguire lo sviluppo di questo progetto, ma anche di conoscere sia la realtà in cui vivono i profughi curdi e sia la situazione di questo paese immerso tra lotte interne, regionali e internazionali. Quello che tutti ci chiedono è …raccontare, spiegare al mondo, chi sono e cosa vogliono, proprio perché l’informazione diretta di chi ha visto e sentito, è quella che rappresenta la verità. Quasi nessuno sa che esiste un campo profughi in mezzo al deserto che si chiama Makhmour organizzato con un sistema democratico dove le donne contano, dove le donne non sono solo madri o serve e dove da vent’anni una forte resistenza ha permesso loro di continuare a vivere una vita dignitosa e piena di speranze.
Mentre stavo scrivendo la situazione che ho trovato in Kurdistan, sono stata raggiunta da questa tremenda notizia.
“Verso le ore venti del 13 dicembre scorso aerei turchi hanno bombardato le colline intorno al campo di Makhmour. Non è stato un caso la scelta di questo obiettivo da parte dello Stato turco. Makhmour deve essere annullato, cancellato, il suo esempio è troppo pericoloso.
Il bilancio dell’incursione: quattro donne uccise nelle loro baracche, una madre, sua figlia, sua nipote ed un’ospite della famiglia. Questa non è stata la prima volta, dall’anno scorso il campo è stato attaccato con aerei da guerra dallo stato turco due volte, uccidendo civili e componenti delle Unità di Autodifesa di Makhmour. Contemporaneamente a questa incursione è stata attaccata anche la regione nord irachena di Sengal. L’attacco è avvenuto mentre la maggior parte degli abitanti yazidi era impegnata nei preparativi della festa Ezi. Tutto questo è la dimostrazione dell’odio del regime di Erdogan contro il popolo curdo e yazidi con l’obiettivo di voler completare quello che l’Isis non ha fatto. L’Isis infatti dopo Mosul ha spostato la sua attenzione verso Makhmour e Sengal. Luoghi che sono stati difesi dalla guerriglia curda. Dietro tutti questi attacchi si nasconde, ma non troppo, il piano d’invasione del governo turco a guida AKP-MHP (Partito conservatore turco della Giustizia e dello Sviluppo a guida Erdogan – Partito del movimento nazionalista, braccio politico dei Lupi Grigi) in Iraq Kurdistan Bashur, iniziato molto prima del conflitto siriano, attraverso una partnership strategica con il KDP (Partito Democratico del Kurdistan) di Massud Barzani. Si capisce quindi anche il perché della crisi di governo iracheno dopo le elezioni legislative di maggio scorso. La sensazione è quella d’identificare questa crisi come il prodotto delle tensioni tra Iran, Usa e Arabia Saudita. Lo scopo sarebbe quello di mettere il KDP e il PUK (Unione Patriottica del Kurdistan) contro il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) e di allontanare poi il Puk da Baghdad. Il piano della Turchia è riprovevole e tutto dipenderà dall’acume politico dei curdi, del Kdp, del Puk e dalla loro volontà di rifiutare l’influenza dei colonialisti.
Quello che sta succedendo in Kurdistan è un fatto molto grave, ma tutto tace. Nessuna notizia. Nessuna condanna.
L’ONU dovrebbe denunciare questo attacco, dato che il campo è sotto il suo controllo come, in egual modo dicasi, per il Governo centrale iracheno ed il Governo regionale del Kurdistan del sud. Un silenzio che è sinonimo di complicità.
L’esempio più significativo è quello della divulgazione, nel novembre scorso, del bando di ricerca e di taglia, emanato dagli USA, per la cattura di alcuni dirigenti del PKK. Un azione questa che ha provocato molte proteste in tutta Europa: Amburgo, Berlino, Reims, Basilea, Roma. Una mobilitazione che ha evidenziato la difesa del PKK dall’accusa di essere considerato un’organizzazione terroristica, che ha chiesto la fine dell’isolamento del suo fondatore Ocalan in carcere in Turchia da 20 anni ed accusando gli Stati Uniti di aver emesso questi mandati solo per compiacere al regime dell’Akp in Turchia.
Non è possibile quindi che gli attacchi contro Makhmour e Sengal siano avvenuti senza l’assenso degli Usa. L’obiettivo è quello di intimidire ed allontanare dal movimento curdo tutte le aree che si sentono vicino ad Ocalan e alla lotta del popolo curdo.”
I campi profughi nel mondo non sono tutti uguali.
La loro diversità dipende dal luogo in cui si trovano e dal motivo della loro esistenza. Quello che però li rende uguali è la sofferenza per essere costretti a vivere una “non vita”, in un luogo che non è la propria terra e di non avere riconosciuto nessun diritto per un tempo indefinito. Vivere in un campo profugo significa vivere una vita non umana.
Il campo profughi palestinese di Chatila in Libano di un chilometro quadrato, per esempio, è l’espressione del degrado umano dove 20.000 persone di ogni etnia (8000 sono palestinesi, poi siriani, libanesi, eritrei …insomma è il rifugio dei più poveri) sono costretti a vivere praticamente l’uno sull’altro in una situazione non umana senza nessun diritto di lavoro, sanità, istruzione, proprietà ecc. Il campo profughi di Makhmour in Bashur, Kurdistan iracheno, in pieno deserto, è abitato da circa 13.000 curdi (ultimi censimento 6 anni fa) fuggiti dalla Turchia nel 1993, dove non possono tornare.
In entrambe queste situazioni, i residenti dei campi cercano di sopravvivere cercando di non essere dimenticati dalla comunità internazionale intrecciando relazioni con alcune organizzazioni che si occupano di diritti civili. La speranza di poter vedere realizzati i loro sogni, nonostante tutte le difficoltà ed il senso d’abbandono, continua a vivere dentro i loro cuori.
La speranza per il popolo palestinese in Libano si può tradurre nel lavoro di associazioni come Beit Atfal Assomoud, per quella del popolo curdo, risiede nell’applicazione del Confederalismo Democratico. Ma per entrambi, è e resta, la resistenza del loro popolo.
Il campo di Makhmour è un’oasi nel deserto ma, pur dovendo sempre rapportarsi con un clima crudele, con animali pericolosi e con nuovi e vecchi nemici, il suo popolo è riuscito a mettere in pratica l’ideologia socialista elaborata dal loro leader curdo “Apo” Abdullah Ocalan che ancora oggi si trova dal 1999, in totale isolamento sull’isola carcere di Imrali. In questa prigione, costruita con l’approvazione delle istituzioni europee, non può incontrare i suoi avvocati dal 27 luglio 2011 e l’ultima visita della sua famiglia risale al 11 settembre 2016. Per questo nessuno sa quali siano in realtà, le sue reali condizioni di salute.
Il campo di Makhmour è diverso da tutti gli altri campi profughi nel mondo. E’ diverso come organizzazione, come spirito, ma anche qui la vita è molto dura. La storia di questo campo assomiglia ad una grande epopea storica.
La migrazione dalla Turchia inizia nel 1993 con la guerra contro il PKK nel Kurdistan settentrionale o Bakur. L’esercito invase i villaggi vicini al confine con l’Iran e l’Iraq, costringendo gli abitanti a dover scegliere tra la collaborazione con i militari nella repressione del partito, l’uccisione o la fuga. I villaggi furono come al solito incendiati e le persone perseguitate. La maggioranza scelse l’esilio. Il PKK era onorato. In montagna c’erano i propri figli, mariti, sorelle, fratelli. Non si poteva tradire!
I profughi oltrepassarono la provincia di Sirnak e giunsero nel Bashur, nel Kurdistan iracheno che nel 1991 aveva ottenuto l’autonomia da Baghdad, grazie alla guerra del Golfo e agli americani, controllato a nord dalle milizie del Pdk di Barzani, alleato con Stati Uniti e Inghilterra. Una catena di civili si mise in marcia a piedi in fila uno dietro all’altro. All’inizio erano in pochi, ma poi, di villaggio in villaggio, la catena si trasformò in una colonna di 15.000 persone. Quello che faceva paura ai turchi era la loro unità, la loro decisione di stare tutti insieme. Passarono il confine ed arrivarono ai piedi del monte Hantur, a Behere. Iniziarono i bombardamenti su quella specie di campo. Dopo tre mesi arrivò l’Unhcr nonostante la posizione negativa del governo turco. Ma nemmeno il governo del Kurdistan di Barzani li voleva. L’arrivo delle Nazioni Unite migliorò solo di poco la loro condizione. Una notte di novembre, senza dir nulla ai peshmerga di Barzani, decisero di andarsene. Non potevano più continuare a stare sotto le bombe. Attraverso vari sentieri arrivarono sotto le montagne di Zakho, a Bersire. Ma anche qui non trovarono pace. L’esercito turco attraversò il confine ed attaccò i profughi a Zakho. Il governo regionale, con la scusa di non aver chiesto il permesso di spostarsi, mise in atto un embargo contro di loro. Non potevano uscire dal campo per qualsiasi motivo. Il tempo passava inesorabile. All’inizio del 1995, arrivarono alcune Ong e spostarono tutta quella popolazione a Etrus in due campi distanti un paio di chilometri l’uno dall’altro. Da quel momento, le 15.000 persone furono riconosciute ufficialmente come profughi dall’Unhcr, ma dovevano ubbidire ai loro ordini, non potevano autorganizzarsi. I profughi non accettarono questa imposizione. Volevano dividere gli aiuti che ricevevano secondo le loro esigenze e abitudini, ed iniziarono anche a creare comitati per gestire i problemi quotidiani e il rapporto con le Ong. Iniziò così l’Operazione Acciaio. I peshmerga circondarono il campo con dei presidi militari e non facevano più uscire o entrare nessuno, in caso contrario, sparavano. Alla fine le tombe sono state 100, una trentina uccisi dai peshmerga, altri morti per malattia. Non c’era cibo, non c’era acqua. Dopo un anno, a metà del 1996 furono spostati in un altro campo, a Ninive. Unico modo per far finire l’embargo.
Il Pdk e la Turchia convinsero l’Onu a sgombrare il campo e a disperdere tutti i suoi abitanti in zone lontane e distanti tra di loro. Cinquemila persone accettarono l’offerta e vennero trasferite in diversi villaggi e città del Kurdistan iracheno. In 10.000 invece rifiutarono il piano e restarono insieme. Si rifugiarono senza nessuna copertura e in maniera illegale, vicino a Mosul, nella piana di Niniveh, zona cuscinetto tra la regione di Barzani e quella controllata da Saddam. Ma il governo regionale non li voleva, neppure lì si poteva stare. Si spinsero allora, in una notte di gennaio, abbandonando tutto, ancora più avanti nella zona di Saddam. Restarono cinque mesi accampati davanti al checkpoint in una zona militarizzata.
La zona purtroppo era minata e molti rimasero uccisi. A maggio del 1997 il comitato delle 10.000 persone trovò un accordo con la prefettura irachena ed entrarono nella terra di Saddam, anche se con paura.
L’Onu finalmente riuscì nel 1998 a convincere il governo a concedere ai profughi un insediamento.
Saddam aveva accettato di accogliere questi profughi perché sapeva che i curdi di Barzani, con i quali era in conflitto, erano loro nemici. La scelta cadde sulla zona inospitale desertica di Makhmur a sud di Mosul. Ultimo viaggio. Il più terribile. Arrivarono nel deserto. Non c’era erba, acqua, nessuna struttura, solo un vento di sabbia.
Fu così che il campo di Makhmur, dal 1998, passò sotto il controllo dell’ONU. I suoi abitanti provengono dal Kurdistan del nord, da Colemêrg (Hakkari), Şirnex (Şırnak) e Van. Tutti si sono rifiutati di lavorare per lo Stato turco come guardiani di villaggio, anche perché in ogni famiglia c’è almeno un morto avvenuto per mano turca.
Qui il clima è freddo d’inverno e caldissimo in estate. La forte presenza di insetti velenosi e scorpioni hanno provocato molte malattie e decessi tra la popolazione. E’ un campo in rivolta contro tutto e tutti.
In questi vent’anni, la sua popolazione è sopravvissuta a tante persecuzioni e nonostante non siano stati aiutati da nessuno, da soli hanno costruito questa città con case, scuole, centri di comitati ed un’amministrazione municipale. Un “sistema società” organizzato grazie alla messa in pratica del Confederalismo democratico. Il loro obiettivo è quello di superare il capitalismo e fondare un socialismo democratico che abbia al suo centro, oltre all’equa distribuzione delle risorse, la tutela dell’ambiente e l’emancipazione della donna.
Makhmour è stato anche protagonista tra il 6 e l’8 agosto del 2014 di una battaglia contro l’ISIS. I peshmerga che controllavano la zona tra Mosul, Makhmur e Kirkuk si dispersero subito difronte alla violenza di Isis. Un responsabile non militare del PKK ricevette la richiesta di sgombro immediato di tutta la popolazione del campo. Ci fu una corsa contro il tempo, ma riuscirono a requisire un numero sufficiente di autobus e camion, vincendo la resistenza del KRG (Governo autonomo del Kurdistan), per l’evacuazione, mentre in città si diffondeva il panico. Arrivato il buio, gli adulti, raccolti velocemente i loro principali averi, insieme ai bambini assonnati ed inconsapevoli di quel trambusto e gli anziani, che ancora una volta erano pronti per una nuova fuga, prese avvio la lunga marcia verso la salvezza. Mentre la colonna di automezzi civili si avviava verso Erbil, in senso contrario stavano arrivando i pick-up dei combattenti dell’HPG (forza di difesa del popolo) per difendere Makhmour. Le linee di difesa lasciarono entrare nel campo i miliziani dell’ISIS, poi iniziarono a bersagliarli dalle alture e contemporaneamente contrattaccarli infiltrandosi, guidati da alcuni abitanti che conoscevano bene il campo, tra vie delle abitazioni. Gli uomini dell’Isis, dopo la fuga dei peshmerga, non pensavano di certo dover affrontare una tale resistenza organizzata e aggressiva. Tutta la gloria va a questi guerriglieri: due giorni e due notti di scontri feroci tra le case della loro gente.
Makhmour rappresenta un simbolo di resistenza per tutto quello che un popolo in fuga è riuscito a costruire in quel luogo, ai piedi di colline di pietra, in uno spazio di terra senza acqua, dove il governo del Kurdistan iracheno li aveva mandati a morire.
“Makhmour è il cuore dell’esilio del popolo curdo, è il popolo in cammino verso la sua liberazione, è l’esodo in un deserto da dove, prima o poi, si giungerà alla terra non promessa, ma voluta e conquistata, ed infine, è la testimonianza suprema della volontà di vita degli uomini.”
Lungo la strada per arrivare al campo incontriamo alcuni posti di blocco controllati, dopo il referendum del luglio 2017 per l’indipendenza dell’Iraq, dai soldati dell’esercito di Baghdad (prima erano controllati dai Peshmerga curdi iracheni). In uno di questi chek-point ci ritirano i passaporti che ci saranno poi restituiti solo alla nostra uscita dal campo. E’ una prassi abituale, ma ci lascia ugualmente un po’ perplessi e preoccupati. L’ultimo è presieduto dai compagni curdi. In tutta la zona vige un coprifuoco che limita l’ingresso al campo dalla mezzanotte alle sei di mattina.
Siamo rimasti per i primi cinque giorni del nostro viaggio nel campo di Makhmour ospiti di famiglie. E’ inutile descrivere l’ospitalità che abbiamo ricevuto! Non eravamo ospiti ma componenti della loro stessa famiglia. Yuksek Kara, il nostro padrone di casa nonché Responsabile delle Relazioni esterne del campo ci ha sempre accompagnato in tutti gli incontri.
L’organizzazione sociale del Campo
Il campo è diviso in 5 zone e ogni zona in 4 quartieri. E’ gestito da due Assemblee istituzionali, una Popolare e una delle Donne.
Ogni comitato del campo, istruzione, sanità, ecologia, economia, giovani, gineologia ecc, ha un suo rappresentante in queste assemblee.
Ogni quartiere ha una sua assemblea che ha l’obbligo di riportare a quella Popolare ciò che è stato discusso e deciso.
L’assemblea Popolare è convocata ogni due mesi, mentre quelle di quartiere una volta alla settimana. I problemi sono risolti normalmente nelle assemblee di quartiere, ma se si presentano complicazioni e non sono risolvibili, si passa all’Assemblea Popolare.
Ogni due anni c’è il Congresso del campo per eleggere i nuovi rappresentanti delle due assemblee istituzionali.
Nella Assemblea Popolare ci sono due co-presidenti, un uomo e una donna, mentre in quella delle Donne il Presidente è uno solo.
L‘assemblea Popolare è composta da 131 membri e 31 di questi formano il comitato di controllo.
L’assemblea delle donne, nata nel 2013 è composta da 81 donne elette solo dalle donne, di cui 33 fanno parte anche di un Comitato ristretto e di queste, 9 sono co-presidenti nelle varie istituzioni, come per esempio sindaco e assemblea popolare.
Ogni istituzione (scuola, sanità, economia, cultura, donne, orfani, lavoro, ecologia, gineologia) vede sempre la presenza di un uomo e di una donna e queste nove donne le rappresentano tutte.
Le 33 donne del Comitato ristretto si occupano solo dell’Accademia delle donne. (vedi “Le donne del Kurdistan”)
In questi due ultimi anni abbiamo trovato il campo migliorato: sono state pavimentate alcune strade; è stato costruito un piccolo presidio sanitario in funzione da soli tre mesi; si applica la raccolta differenziata per la plastica e cartone; da due mesi è operativo un Centro per bambini down; è stato realizzato un anfiteatro per spettacoli culturali e si è anche provveduto ad installare un sistema di illuminazione nel campo per migliorare la sicurezza dal momento che l’ISIS è ancora presente in queste zone.
Esiste anche un’Assemblea della Sanità costituita nel 2013 e composta da 50 persone tra medici di diversa specializzazione ed infermieri, il cui Co-presidente è il Dottor Mahmet che incontriamo durante la visita al piccolo ospedale.
Nel campo di Makhmour esiste anche una vecchia struttura sotto il controllo dell’Unchr ma che funziona solo dalle otto alle tredici. Vista l’importanza di offrire una risposta adeguata ai problemi sanitari del campo, è sorta la necessità di avere un servizio aperto 24 ore. Così è nato questo piccolo ospedale che funziona dalle tredici alle ore otto del mattino seguente. L’ospedale è stato costruito solo con le offerte della popolazione stessa lavorando gratis e degli amici esterni.
In tre mesi di attività sono stati visitati e curati 3.700 persone tra i residenti del campo e da altre città. Il motivo principale della scelta di questo ospedale, dal punto di vista dei pazienti, è quello del diverso tipo di approccio medico. Qui trovano un rapporto umano, una fiducia che manca invece in altre strutture. Il problema principale dell’ospedale per il suo funzionamento è la mancanza di energia elettrica, disponibile solo per 12 ore al giorno. Per questo avrebbero la necessità di avere un altro generatore di corrente.
Un altro problema è la mancanza di ambulanze per il trasporto di persone in pericolo di vita che necessitano di attrezzature più sofisticate rispetto a quelle esistenti. Per non parlare poi dei medici di questo ospedale che solo per il fatto di essere profughi non possono continuare gli studi di specializzazione, costringendoli così, per alcuni casi più complicati, a dover chiedere l’intervento di medici esterni.
Le malattie più comuni sono legate all’uso dell’acqua inquinata proveniente da quattro pozzi o dall’esterno tramite l’uso di autobotti oppure, per problemi dovuti al diabete, pressione arteriosa, cuore e anemia.
L’assemblea sanitaria ha avviato, dal momento che le persone con malattie croniche sono ben 686, un progetto finalizzato all’apertura di un’Accademia sanitaria per coinvolgere i giovani allo studio della medicina, dell’infermieristica e per avviare un percorso di prevenzione per questo tipo di malattie.
Alla sede della municipalità del campo incontriamo i due co-sindaci, una donna ed un uomo. Le prime parole della donna sono indirizzate ad una speranza di democrazia. Il fascismo si combatte con la democrazia. Tutti loro si trovano profughi in questo campo a causa del fascismo turco. Occorre quindi unire tutte le varie forze democratiche per combattere, resistere insieme, contro l’oppressione fascista. L’obiettivo del Confederalismo Democratico è appunto quello di unire, di mettere insieme per opporsi ad un unico nemico.
La co-sindaca, ci fa presente, che la municipalità di Makhmour ha vari progetti da mettere in cantiere. Ad esempio: una casa di ritrovo per gli anziani, due nuove scuole e la creazione di fognature. Sono riusciti a mettere in atto un riciclo di rifiuti, plastica e cartone, per poterli rivendere. Viene ribadito che il campo soffre di un grande problema legato all’acqua. Ci sono sei pozzi, quattro utilizzati per bere e due per i lavori. Ogni casa ha quindi due tipi diversi di acqua. L’acqua era pulita, prima della guerra contro l’Isis, arrivava dal fiume Tigri, ma poi Isis a Mosul ha rotto la condotta e l’acqua è stata inquinata. L’acqua comunque del campo contiene molto calcaree e zolfo.
A questo punto la nostra delegazione propone un progetto per depurare l’acqua. l campo si trova in una zona desertica e l’acqua disponibile non è sufficiente per tutto e tutti. La popolazione avrebbe bisogno di avere, per entrambi gli usi, almeno 12 metri cubi d’acqua, mentre ne hanno a disposizione solo 8. I curdi sono una popolazione di contadini e di pastori, ma qui essendo la situazione geografica non favorevole riescono ad avere un orto o qualche pianta solo a livello personale. Difficoltà quindi anche far crescere un semplice pomodoro perché brucia prima di essere completamente maturo. Ci vorrebbero delle serre, ma non vogliono far crescere frutta e verdura sotto la plastica.
Anni fa i giovani andavano ad Erbil a lavorare, ora, data la difficoltà di uscire dal campo per la mancanza di permessi, il numero è molto diminuito. Quasi tutti sono occupati nell’edilizia.
Nella municipalità sono impegnate 32 persone, 9 di queste sono assessori con ruoli specifici. In verità è evidente che ormai questa popolazione sta cercando piano piano di creare una vera città. Non pensavano certo di dover rimanere qui oltre 20 anni!
Il motivo principale del nostro incontro con la municipalità è legato anche al nostro progetto per la costruzione del nuovo ospedale, fermo al 2016, causa della guerra contro l’Isis. La co-sindaca assicura però che il progetto sarà portato a termine quando avranno la disponibilità economica. Nell’ultimo periodo hanno dovuto optare, nel utilizzo delle risorse ricevute, causa l’emergenza della guerra in atto, per l’acquisto di kit sanitari e la necessità di rendere agibile subito il piccolo ospedale, visitato il giorno precedente.
Prima comunque di lasciare il campo facciamo un sopralluogo all’opera incompiuta per verificare lo stato dei lavori. Quello che vediamo non ci conforta! Solo pareti di mattoni grigi in mezzo ad una distesa di sabbia e sassi! Cerchiamo di capire la situazione. Ancora una volta la guerra detta legge. Le emergenze, dovute ancora alla presenza delle milizie dell’Isis, hanno costretto la municipalità del campo a dover optare per la costruzione di un piccolo ospedale come presidio di pronto soccorso, non potendo affrontare le opere necessarie per portare a termine il nostro progetto. La Municipalità di Makhmour ha promesso che, per tutelare quanto è stato fatto finora per la costruzione dell’ospedale, verrà recintato e sorvegliato.
Nel campo c’è anche un Centro giovani formato da ragazzi e ragazze, organizzato da un’assemblea generale di 70 persone, 25 di questi hanno la responsabilità in altrettanti comitati, come cultura, sport, difesa del campo, studenti, diffusione del Confederalismo Democratico per una vita migliore. Non c’è un limite d’età per far parte di un comitato, tutti possono intervenire. Erbil è considerata la città del capitalismo, non accettano la vita che si svolge nel capoluogo del Kurdistan iracheno. Non c’è differenza di ruoli tra maschi e femmine, tra di loro il confronto d’idee è praticamente giornaliero. Il loro obiettivo è quello di parlare con tutti i componenti del campo specialmente con gli anziani e le donne per far cadere gli ultimi residui di convinzione appartenenti ad una vecchia cultura patriarcale. Il loro motto è: credere e creare.
Il nostro soggiorno nel campo di Makhmour ci ha dato l’opportunità di conoscere persone, famiglie, di sentire i loro racconti, di percepire la loro sofferenza e la speranza per un futuro migliore. Sofferenza legata alla loro fuga dalle case, dai villaggi in Turchia dove prima vivevano. Case distrutte, villaggi dati alle fiamme. Le scelte erano: restare, diventare spie, morire oppure scappare con la speranza di poter ritornare un giorno non troppo lontano. Dopo un lungo pellegrinaggio sono arrivati qui al campo chiamato “della morte” ma che insieme sono riusciti a farlo diventare quello “della vita e della speranza”. Questo campo ha sempre avuto nemici, non solo Daesh ma anche lo stesso governo iracheno, in quanto questa formula di organizzazione, fa paura. Qui si è deciso per un auto-gestione, per il Confederalismo democratico, quasi tutti hanno studiato, sono preparati e sono diventati quindi un esempio per molti e questo fa paura ai governanti e al potere.
Il sistema educativo scolastico del campo prevede scuole che vanno dall’asilo alle classi superiori. La scuola superiore, frequentata dai 13 anni ai 20, è una sola, non c’è una scelta di indirizzo, non esistono per esempio licei o scuole tecniche. L’obbligatorietà cessa con le scuole medie. I ragazzi però sono spronati a continuare gli studi, perché l’istruzione è ritenuta la base di un possibile cambiamento culturale che può portare poi ad una vera modifica della società attuale.
Si studiano comunque tutte le materie, dalla geografia alla biologia, matematica, sociologia, gineologia, inglese, chimica, informatica e naturalmente la storia. Viene specificato che per capire la realtà in cui si vive, prima è necessario approfondire la storia mondiale e poi quella particolare del loro stato. Nel loro sistema non sono previsti voti, ma punti. Alla fine di ogni anno scolastico per passare a quello successivo si deve totalizzare 40 punti. Nel caso in cui non si raggiunga il massimo dei punti, si ripete l’anno di studio. Se poi questo si ripete un’altra volta, l’assemblea della scuola chiama i genitori per poter capire quali sono i problemi che impediscono al ragazzo di ottenere tale punteggio. In caso di rifiuto di continuare gli studi, l’insegnante va direttamente a casa del ragazzo per seguirlo ed insieme ai genitori cercherà poi di riportarlo a scuola. L’abbandono scolastico è comunque molto limitato, solo 3 casi all’anno. Tutti gli insegnanti sono volontari. Dal 2005 al 2015 non hanno mai percepito nessuna forma di stipendio, solo dal 2016 ricevono un piccolo contributo. Le divise scolastiche ed i libri sono a carico delle famiglie, ma nel caso in cui questo non è possibile, sono donate dalla comunità. I problemi sono legati al numero insufficiente d’insegnanti e allo stato fisico delle strutture scolastiche. Le aule sono piccole e con problemi di sicurezza. Mancano i laboratori di ogni tipo, come per esempio di chimica, di lingue, d’informatica, ecc. Si studia quindi solo la teoria non riuscendo a mettere in pratica niente di quanto appreso. L’incursione di Isis all’interno del campo nel 2014 ha distrutto quello che c’era e non è mai più stato rimesso in piedi.
Le scuole superiori, come quelle medie, sono frequentate da circa 700 ragazzi ognuna, divisi in 23/24 classi con 33/35 insegnati. Ogni classe conta circa 30/36 alunni con doppi turni. Tutti gli studenti iracheni e curdi devono sostenere un esame d’ammissione per accedere agli studi universitari. Quelli curdi però non possono andare a studiare all’estero perché sprovvisti di documenti, anzi non potrebbero nemmeno uscire dal campo. Possono accedere all’università di Erbil, ma poi, per disposizione legislativa, non gli è permesso accedere alle specializzazioni e di lavorare nel settore pubblico. Tutto dipende dalla politica.
Fare studiare i figli diventa anche un investimento per arricchire il campo e, per questo motivo, non sono spinti ad andare fuori all’estero, perché se vanno via, anche il campo stesso perde. La loro scommessa è quella di farli studiare e farli rimanere. Scappare non è una soluzione perché si rischia di perdere la propria identità. Quando qualcuno riesce a raggiungere altri paesi, poi non torna più e se anche manda aiuti a chi è rimasto, è considerato un traditore, perché ha lasciato ad esempio i genitori da soli dando l’onere di sostenerli ad altre persone.
Nel campo di Makhmour da due mesi è in funzione anche un centro per bambini con la sindrome di down. E’ stata una decisione voluta per cercare di migliorare la loro vita, per non farli sentire troppo diversi da tutti gli altri e per non lasciarli isolati, nascosti agli occhi del mondo. Fino a questo momento, infatti sono sempre restati a casa senza frequentare nessuna scuola perché non c’erano insegnanti adatti. I bambini sono 21 con 8 insegnanti. Questa struttura è provvisoria in quanto servirebbe un centro più grande e adatto a questo tipo d’insegnamento. Gli insegnanti volontari hanno fatto un corso di specializzazione mirato proprio verso questo tipo di disabilità. Dal momento che le aule e gli insegnanti sono pochi e che i bambini necessitano di una presenza costante di un insegnante, sono costretti a farli arrivare a rotazione per poter dare un servizio migliore. Durante la giornata c’è dunque un momento dedicato all’insegnamento con il solo bambino, poi c’è un momento di gioco dove si trovano tutti insieme. Quello che stanno cercando di fare per questi bambini è ammirevole, sono solo agli inizi, necessitano ancora di tante cose, di altri insegnanti, di medici, di materiale didattico e sanitario, ma importante è iniziare. Con l’apertura di questo centro, proprio per limitare questo handicap, hanno iniziato anche a sottoporre le donne in gravidanza ad uno screening con amniocentesi. E’ possibile anche effettuare, in caso di anomalie accertate, aborti terapeutici presso l’ospedale di Erbil.
Lasciamo fisicamente il campo di Makhmour ma il nostro cuore è ancora lì con la sua popolazione che è riuscita ad avere una vita dignitosa contro ogni altra prospettiva negativa. Il mio ricordo, il mio pensiero va verso le guerrigliere e guerriglieri che in montagna cercano di difendere il loro popolo sia dagli attacchi dell’Isis, non ancora sconfitto definitivamente, e sia da quelli dell’esercito turco…
Fonti: www.uikionlus.com
Libro “Guerra all’Isis” di Gastone Breccia
Libro “La guerriera dagli occhi verdi” di Marco Rovelli