Le montagne di Qandil, zona montuosa dell’Iraq settentrionale nel Kurdistan Bashur e al confine con l’Iran, sono il rifugio e quartier generale dell’esercito curdo guidato dal PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) che difende e combatte questo territorio. La politica applicata, come a Makhmour, è quella del Confederalismo Democratico sostenuta dal leader Ocalan. Per questo è una zona spesso bombardata dall’aviazione turca ed anche dall’artiglieria iraniana.
La municipalità di Qandil, composta da 61 villaggi e da circa 7.000 persone, rimane il cuore di queste montagne, nonostante alcuni villaggi siano stati abbandonati a causa dei bombardamenti effettuati nel 2011 e 2015 dall’esercito turco. Le incursione turche,in realtà, non si sono mai fermate, anzi il 2017 e 2018 sono stati anni molto pesanti, anche perché le operazioni contro il Pkk nel Nord Iraq rientravano nella nuova dottrina della Turchia in nome di una messa in sicurezza dei propri confini. Da considerare, inoltre, che l’avvio di queste operazioni coincideva con una campagna elettorale arrivata quasi al culmine delle elezioni del 24 giugno 2018, elezioni che avrebbero segnato le sorti del paese.
All’ombra di grandi alberi tra le montagne di Qandil, nascosti dal sole e dai droni turchi, incontriamo il Comandante Riza Altun, Membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) conosciuto come Ministro degli esteri e Fatma Adir, sempre del Consiglio esecutivo del KCK.
Il Comandante, come prima cosa, afferma che è a conoscenza di tutto quello che viene fatto in Italia a sostegno del popolo curdo e, proprio grazie a noi, si è sviluppata in altri paesi una maggior sensibilità verso la questione curda. Nel mondo essere curdo è molto pericoloso e non tutti condividono la loro lotta.
“La crisi capitalista di tutto il mondo rispecchia anche la crisi in Medio Oriente. La globalizzazione di fatto ha unificato tutti i paesi, stessa voglia di potere e di supremazia al di sopra dei più semplici diritti umani dei popoli. Ma perché tutte le maggiori forze internazionali si trovano in M.O.?” E’ una domanda che Riza fa a se stesso e a noi per farci comprendere l’attuale situazione politica. Il sistema creato dopo la prima guerra mondiale dalle super potenze non funziona più. Di fatto ci troviamo dentro la terza guerra mondiale con la ridefinizione di nuovi confini e di nuove gerarchie da parte degli Stati più forti e determinati ad ottenere più vantaggi possibili rispetto agli altri concorrenti (Stati Uniti, Russia, Iran, Paesi arabi, Israele, Turchia, Europa ecc). Non esiste, da parte di tutte le forze mondiali coinvolte in questa guerra, un progetto per una soluzione democratica, ma solamente tante parole per difendere in realtà solo i propri interessi. Gli Usa vogliono mantenere il loro predominio per il petrolio e l’Europa ha optato alleanze per puro interesse economico.
La politica della Turchia ha principalmente l’obiettivo di eliminare il popolo curdo non solo dal suo territorio.
La Russia quando è entrata nelle questioni del M.O. poteva giocare un ruolo importante, invece ha preferito scegliere un percorso diverso per ritrovare quell’egemonia che aveva in tempi lontani, stringendo alleanze con alcuni poteri forti statali. E’ stata l’artefice “dell’amicizia” tra Iran e Turchia, i due stati mentalmente più arretrati. Uno come stato nazione e l’altro per religione, uniti solo contro il popolo curdo. A conferma di tutto ciò, l’accordo siglato ad Astana (Kazakistan) a settembre 2017 tra le tre potenze di Iran, Russia e Turchia. Quest’accordo, sesto round dei colloqui trilaterali sulla Siria, include come zone di de-escalation, la Ghouta orientale, la provincia di Idlib, Homs, Latakia, Aleppo e Hama. E’ stato quindi firmato un “cessate il fuoco” tra le le forze governative e gruppi moderati dell’opposizione, supervisionato dalle suddette potenze garanti per sei mesi. La zona più complessa è quella di Idlib soprattutto per la presenza di fazioni jihadiste legate al nuovo gruppo Hay’at Tahrir al-Sham (HTS). Iran, Russia e Turchia invieranno a Idlib 500 osservatori ciascuno per pattugliare e gestire i checkpoint posti sui confini delle zone di de-conflitto.
Il commento di Erdogan: “In base all’accordo, i russi garantiranno la sicurezza al di fuori della regione di Idlib e la Turchia all’interno. Il compito non è facile. Con Putin discuteremo ulteriori misure necessarie per sradicare i terroristi una volta per tutte e ripristinare la pace”.
Nel tentativo di fermare le fazioni jihadiste, la Turchia ha dato avvio alla costruzione di un Esercito Nazionale Siriano. Un esercito rivolto soprattutto verso le milizie YPG per impedire la connessione di Afrin con il resto del Rojava. Con l’accordo di Astana, infatti la Turchia chiede di fatto alla Russia di lasciarla libera nei confronti della sua battaglia conto i curdi, e la Russia un aiuto nel conflitto siriano.
Riza continua la sua analisi affermando che il PYD, il partito dell’Unione Democratica curda, ha cercato una soluzione anche con la Siria, che però è stata rifiutata. In realtà il governo siriano non ha sul territorio una vera forza politica e militare. Queste sono state astutamente suddivise. Ad Hezbollah e Iran,quella militare e alla Russia quella politica.
Senza l’appoggio della Russia, la Turchia non poteva entrare nei territori curdi della Siria (Jarablus e Afrin).
“Ai partiti curdi non è mai stato concesso di partecipare né alla Conferenza di pace di Ginevra e né agli Accordi di Soci e Astana, nonostante la loro battaglia contro l’Isis. Nessuno ha fatto niente.” In teoria non sarebbero contro i curdi, a parte la Turchia, ma in realtà, gli interessi personali ed economici prevalgono al sostegno e difesa di un popolo che cerca la propria autonomia.
Riza Altun e le prospettive per un futuro
“Il nostro popolo non accetta questa logica imperialista, noi siamo per una democrazia che parte dal basso, dal popolo. Il nostro progetto è chiaro, reale e lo si vede in quello che sta vivendo il Rojiava. Ma in questa lotta abbiamo tutti contro. Io credo – prosegue – che, per trovare una soluzione in Medio Oriente, non essendoci attualmente nessun progetto reale da parte delle altre potenze, l’unica alternativa rimane una guerra fra le parti in causa.”
Il problema più grande del M.O. è la mancanza di democrazia e della difesa dei diritti umani. Le popolazioni si dividono in base alle diverse etnie e religioni e questo non permetterà la fine delle guerre. Le divisioni vengono quindi incrementate sempre più per provocare forti contrapposizioni per mettere gli uni contro gli altri. Esiste ancora, per esempio, l’idea dello schiavismo.
“Noi non vogliamo la divisione delle popolazioni, siamo per la convivenza nel rispetto reciproco.” E’ per questo che il modello del Confederalismo Democratico è molto importante non solo per il Medio Oriente e questo fa paura agli stati globali. Tutti dovrebbero cercare una soluzione per una vita normale. Nonostante il M.O. sia molto ricco, la popolazione è sempre più povera. La ricchezza del paese dovrebbe essere divisa tra il popolo, invece c’è troppa disparità, disuguaglianza ed assenza di giustizia.
Il basso livello di vita sociale del popolo rappresenta un altro importante problema che affligge il M.O. e la soluzione resta solo quella di una equa distribuzione delle ricchezze concentrate nelle mani di pochi. Tutti sono a conoscenza di questo stato di cose, ma nessuno ha interesse a porvi rimedio. Il popolo curdo è isolato e il silenzio internazionale è come una grande coperta che nasconde tutte le verità.
“Nessuna potenza si è mai espressa circa il futuro che riguarda il nostro popolo. Solo quando noi combattiamo e resistiamo alle forse dell’Isis, qualcosa cambia. Un esempio? Quello che è successo a Kobane. Molte forze internazionali, attraverso manifestazioni e prese di posizioni favorevoli, hanno appoggiato la nostra resistenza. Per noi questo è stato positivo. Quando si difende un’idea come questa di democrazia, lo si deve fare per tutti i popoli, non solo per quello curdo. La storia ci racconta tanti esempi: la guerra in Spagna del 1936 contro la dittatura di Franco, la resistenza del popolo palestinese negli anni ‘70, il manifesto del partito comunista del 1848, quando si pensa ad una democrazia uguale per tutti si pensa a questi momenti. Noi vogliamo arrivare a questo risultato con una rivoluzione. Rivoluzione culturale, non una rivoluzione con la forza.”
La Siria come terra di cultura e rivoluzioni
Rivoluzione è un tema molto importante, sensibile e, per questo, sotto un manto verde di foglie che rincorrono un vento dolce e tranquillo, al riparo di occhi ed orecchie indiscrete, prende la parola Fatma. Vuole parlare del capitalismo e delle donne. Prima però di sentire la sua voce, vorrei fare un passo indietro e spigare che cos’è la rivoluzione nel Rojava.
La Siria è stata la patria di antiche civiltà, delle prime scoperte umane e di un insieme di varie culture, religioni e lingue. La Siria ha vissuto la rivoluzione neolitica dando vita ad alcune delle più antiche città del mondo ed è stata terra di invasioni ma anche di arricchimento attraverso diverse culture. E’ la patria di arabi, curdi, assiri, caldei, armeni, turkmeni, ceceni con diverse religioni, filosofie che parlano lingue e dialetti diversi. Dopo 400 anni sotto il dominio ottomano, nel 1916, alla fine della prima grande guerra mondiale, i diplomatici britannici e francesi, con l’Accordo Sykes-Picot, ridisegnarono in un modo del tutto artificiale nuovi confini ignorando completamente la politica ed i desideri delle popolazioni locali. Questo ha poi influito sui destini dei popoli che vivevano in Turchia, Siria, Libano, Palestina, Iraq e Giordania. Nel 1920 la Siria fu posta sotto il mandato della Francia. Questo nuovo disegno di confine segnò la seconda divisione delle terre che i curdi consideravano la loro casa (la prima divisione ci fu nel 1639 con il Trattato Qasr-e-Shirin che divise il Kurdistan dell’est dal resto del Kurdistan) in altre tre parti: Turchia, Siria e Irak. Inizia così il processo di costruzione di uno stato- nazione che ha portato grandi violenze, povertà, conflitti, guerre e distruzioni di popoli e ambienti naturali della regione. Nel 1946, il mandato francese termina e la Siria diventa indipendente. In Siria negli anni ‘40 e ‘50 ci furono vari colpi di stato militari con cambiamenti di regimi e costituzione. In questo clima di instabilità, nel 1957 nasce in Rojava il primo partito politico curdo (PDK-S). il partito Baath prende il potere nel 1963 e fu evidente da subito la sua posizione razzista nei confronti delle regioni curde. In Rojava 300.000 persone furono private dei loro diritti di cittadinanza e dichiarati come apolidi o stranieri. Il funzionario dei servizi segreti e capo della polizia di Hasaka, ha definito le regioni curde di Cizre un “cancro” che deve essere estirpato. Questa discriminazione sistematica ha quindi costretto molte personalità e uomini politici curdi a dover lasciare la Siria e il Rojava per nascondersi e riorganizzare le lotte. Nel 1979, un anno prima del colpo di stato militare in Turchia, i quadri dirigenti del PKK, compreso il loro leader Ocalan, tornarono in Siria.
Il Pkk ha organizzato per quasi due decenni la comunità in Rojava e le prime strutture di base. La situazione politica in Rojava non è quindi dovuta ad una risposta alla rivoluzione siriana di oggi, ma ad un lavoro del PKK svolto per anni.
Oggi la Siria è diventata il teatro di una delle guerre più brutali e complicate del sistema politico internazionale.
Fatma Adir e il Rojava
“Quando la Turchia ha attaccato Afrin, nessuno ha parlato, nessuno ha denunciato, silenzio, – comincia Fatma – quando invece è successo a Idlib, tutto il mondo si è espresso, si è indignato. Questo atteggiamento significa solo che per le potenze straniere le popolazioni locali non sono importanti, difendono solo quelle dove ci sono interessi da salvaguardare.” A Idlib vi sono collocati molti estremisti islamici con le loro famiglie (al-Nusra e al-Qaida), mentre ad Afrin vi sono le persone che combattono l’Isis, che difendendo le popolazioni. Queste sono i due aspetti degli stati coinvolti in questa guerra.
A Shingal, durante l’offensiva Isis del 2014 contro la popolazione civile yezida, per evitare un genocidio, sono intervenute solo le Unità di protezione popolare Ypg e Ypj riuscendo anche così a riconquistare ampie parti della regione. Prima dell’arrivo dell’Isis, proprio per organizzare le persone alla difesa, da Qandil sono partite 12 persone. Di queste 3 sono state arrestate ma nove sono riuscite ad arrivare.
I numeri parlano chiaro: negli ultimi 4 anni Daesh ha ucciso 1293 yazidi e circa 3000 bambini hanno perso un genitore. Sono stati rapiti 6.417 yazidi, di cui 3547 donne. Finora ne sono stati liberati 3.300: 1150 ragazze e donne, 337 uomini e 1813 bambini. L’Europa però non ha fatto o detto niente riguardo a questo massacro, ma ha conferito il Premio Nobel per la pace 2018 a Nadia Murad, una ragazza yazida che è riuscita a scappare dal suo ultimo “padrone”. Una storia atroce raccontata nel libro “L’Ultima ragazza”.
“Questo è un esempio del comportamento ambiguo tenuto dalle forze internazionali. Se da una parte possono uccidere e violentare, dall’altra, offrono un riconoscimento alla tua sofferenza, pensando così di pareggiare i conti. Ma non è sufficiente!”
Sul caso di Nadia Murad si doveva intervenire prima per evitare tutta quella violenza. Che senso ha darle un Premio perché è riuscita a liberarsi da sola quando nessuno ha fatto niente per aiutarla? Nel mondo, la donna è considerata quasi sempre per il solo aspetto estetico, ed anche le ragazze dell’unità di difesa Ypj, a loro malgrado, sono diventate una moda, una cosa bella da mostrare, senza niente più. (Vedi “Le donne del Kurdistan”) I combattimenti contro l’Isis sono diventati unicamente notizie utili per l’aumento della vendita dei giornali. In realtà, dietro queste belle ragazze c’è l’idea di una rivoluzione culturale, sociale, democratica, che le spinge ad andare in prima linea a rischiare la propria vita. Questo è il messaggio da divulgare: la loro scelta e motivazione, è la difesa del Confederalismo Democratico.
“Nulla di tutto questo è passato. Neppure la morte di tante martiri nella regione del Rojava, come la carcerazione per le loro idee e la sorte di tanti nostri attivisti e politici repressi in Turchia.“
Le altre popolazioni non curde accetteranno questo progetto democratico?
“Non è facile – risponde Riza – ma cerchiamo di parlare con loro spiegando la nostra teoria e mettendo anche in pratica le nostre idee. Per esempio, a Qamislo, città gemella di Nusaybin, abitata da curdi, arabi, caldei, assiri e cristiani, abbiamo raccolto tutti quelli che credono nel nostro progetto. Parliamo con loro, come anche a Raqqa, la città più arretrata e che è stata capitale dell’Isis, anche se, nonostante il nostro impegno per farci capire, è molto difficile. Per cambiare una mentalità millenaria occorre molto tempo. Da una parte c’è la donna sottomessa che crede “normale” la sua situazione e dall’altra c’è la donna guerrigliera che con la nuova cultura combatte questa idea arretrata.”
Afrin e Idlib
Riza introduce l’argomento che riguarda la situazione ad Afrin e Idlib ed i diversi accordi tra le potenze straniere. Afrin e Idlib sono strettamente legate tra di loro e la loro situazione politica risulta essere molto complicata.
Dall’inizio del 2018 la Siria è stata al centro di conflitti molto cruenti in due zone diverse. Ad Afrin, cantone curdo lungo il confine turco, i combattimenti si sono intensificati quando l’esercito turco è entrato con la forza. L’attacco aereo è servito ad aprire la strada ad una nuova invasione della Sira da parte dell’esercito turco appoggiato dalle milizie jihadiste che Ankara sostiene ed arma dall’inizio della guerra. Nel Ghouta orientale, periferia di Damasco, l’esercito siriano è alle prese con le ultime resistenze dei ribelli a scapito di tantissime vittime civili, con l’aiuto decisivo di forze aeree russe e forze di terra iraniane. L’obiettivo dell’operazione era quello di liberare la città dai terroristi, ossia dai curdi. Operazione chiamata ”Ramoscello d’ulivo” è stata una dimostrazione del potere del governo turco per rafforzare i sentimenti nazionalisti del paese contro i curdi siriani. Il governo, dove non è stato possibile avere il sostegno di questa operazione militare, ha attivato il meccanismo della censura e repressione. Il regime di Erdogan teme che la rivoluzione nel Rojava e le idee del Confederalismo Democratico possano estendersi anche in Turchia e, per questo, ha esteso la repressione nei confronti dei curdi favorendo militarmente l’Isis. La popolazione civile di Afrin ha subito rapimenti, omicidi, sequestro di case, denaro, proprietà e ha dovuto quindi abbandonare il suo territorio e rifugiarsi in campi profughi dell’area di Sahaba. In un rapporto presentato a metà novembre 2018 da una commissione di giuristi provenienti da tutta la Siria, sono elencate tutte le violazioni subite dagli abitanti di Afrin: dall’inizio degli attacchi sono stati oltre 900 le violazioni dei diritti umani – 750 civili uccisi – 2500 civili sequestrati, di cui 850 considerati “scomparsi” – case, campi distrutti – centinaia di migliaia di persone costrette alla fuga. Al posto degli espulsi si sono insediati le famiglie degli jihadisti provenienti da altre parti della Siria.
Come ha sottolineato più volte Fatma nella prima parte del nostro incontro, nessuno ha detto qualcosa contro questa violazione. La Corte Europea dei diritti umani ha voltato le spalle ai civili di Afrin respingendo tutte le cause legali presentate per citare in giudizio lo stato turco, affermando che le denunce sono legalmente incomplete.
Dopo la liberazione del Ghouta, l’esercito siriano è pronto per una nuova offensiva considerata fondamentale: la provincia di Idlib, al confine con la Turchia controllata dalle milizie jihadiste. Entrambe le aree sono sotto il controllo della Turchia: diretto quello esercitato su Afrin, per interposte milizie quello su Idlib.
Afrin e Idlib sono quindi i due nodi importanti per la Siria
Erdogan, all’inizio aveva avvertito che difronte ad un attacco della Siria contro Idlib, avrebbe reso nulli gli accordi di Astana. La Russia se da una parte considera legittime le aspirazioni di Assad, dall’altra punta molto anche sul rapporto con Erdogan. Anche per la Turchia il supporto della Russia è di vitale importanza specialmente ora che, a causa dei dazi imposti da Trump, l’economia del suo paese è in serie difficoltà. Da tutto questo chi ne esce rafforzato è la Russia.
Idlib è diventato il centro del Jihadismo siriano. Molti jihadisti, infatti, di varia matrice e scacciati da altri territori si sono concentrati qui con i loro familiari. Oltre alla popolazione locale (circa 1,5 milioni di abitanti) si sono aggiunti così un altro milione di persone.
Riza prosegue la sua analisi dicendo che “da quando la Turchia è entrata militarmente in Siria, le cose si sono molto complicate e si è passati ad un’altra fase”.
Iran e Siria non vogliono che la Turchia resti ad Afrin e così la Russia ha chiesto il suo ritiro. Se la Turchia non lascia Afrin, ci sarà una guerra e sembra che la Turchia abbia accettato. Nello stesso momento i ribelli dovrebbero lasciare Idlib e spostarsi ad Afrin. A Idlib ci sono anche 150.000 mercenari e se dovesse scoppiare una guerra, molti di questi potrebbero arrivare in Europa. Il pericolo e la volontà di evitare una nuova invasione è di fatto uno dei motivi del perché la comunità europea sostiene la Turchia. Il gioco si fa pesante e si teme anche che la Turchia usi questi ribelli contro i curdi a est del fiume Eufrate. A complicare questo quadro è la presenza di almeno 3000 ceceni che la Russia non vuole assolutamente che rientrino in patria. E qui rientra in gioco la Turchia che si rende disponibile ad aiutare la Russia in questo. In cambio vorrebbe utilizzare però questi ceceni contro i curdi. Ma tutto dipende anche dalla posizione che prenderà l’America. La cosa certa è che gli Usa non permetteranno mai che l’Iran diventi una forza egemone in M.O. per il controllo del petrolio ed anche per aiutare Israele. Occorre quindi dare più potere alla Russia per cercare d’isolare il più possibile l’Iran.
E’quasi certo che gli Usa stiano anche pensato di creare una forte alleanza in M.O. tra Israele, Arabia Saudita e Egitto. Ma nessuno sa per certo quale sarà in definitiva il progetto americano. Ha problemi con la Turchia ma nello stesso tempo non la può perdere! L’obiettivo americano e turco è quello di eliminare totalmente il movimento del PKK. Gli Usa non hanno mai fatto niente per il popolo curdo e per mantenere i loro interessi in M.O. devono cercare di far diminuire la forza curda, non renderla autonoma, indipendente e forte.
“Da quando il mondo è stato diviso dopo la prima guerra mondiale c’è stato sempre solo il caos. L’Europa ha chiuso gli occhi anche difronte alle ultime dichiarazioni di Erdogan fatte poco tempo fa in Germania, dichiarando che tutti i tedeschi sono figli di Hitler e tutti i francesi colpevoli di quello che hanno fatto in Algeria. Perché l’Europa quindi ha bisogno di un uomo così? Il sistema in Europa sta perdendo potere e la popolazione non crede più alla sua politica. c’è un movimento di protesta e a noi questo può fare solo piacere”.
Tra tutte queste analisi e soluzioni, Riza termina affermando che “il suo mondo è diverso e dichiara la sua enorme rabbia e delusione nei confronti della Russia e della Cina per aver venduto il sogno socialista. Per tutti gli altri paesi è normale il loro comportamento in quanto sono sempre stati paesi capitalisti”.
Ricordo le parole espresse dai guerriglieri incontrati in montagna che riprendono la filosofia di vita del loro Presidente Ocalan: “Combattere per tutta l’umanità senza nessuna distinzione di etnie, siamo tutti uomini. Fare una rivoluzione significa prima di tutto impegnarsi, studiare, lavorare su tanti fronti e la cultura è la parte più importante. L’identità umana è stata modificata nel corso degli anni ed oggi la si deve recuperare. Il loro obiettivo è quello di essere al servizio del popolo. Non è importante sapere da dove vengono, la loro storia, importante è essere dove c’è bisogno di loro. Combattono con le armi, ma anche con le idee e con il pensiero, contro il sistema capitalista. Il mondo è sporco ma bisogna andare avanti e l’unione delle persone e dei popoli, è il segreto per riuscire a combattere il male. Abbiamo accettato questo e siamo pronti a morire. Il nostro partito è un partito di martiri, ma se io oggi muoio ne arriveranno altri due domani”.
La situazione, come abbiamo sentito da Riza Altun e da Fatma Adir, è molto complicata e con poche speranze. Lasciamo Qandil con molta tristezza e preoccupazione. Il sorriso sereno sul viso di Riza e Fatma ci conforta un po’. Mi chiedo come è possibile di fronte a tanta incertezza e pericolo riuscire a rimanere tranquilli e fiduciosi. La risposta è semplice: la certezza di essere nel giusto. Con un semplice sguardo riescono a trasmettere forza, sicurezza e amore. Amore per la vita. Amore per la propria terra. Amore per il mondo.
Nella regione di Idlib e Afrin si gioca lo scontro finale?
Idlib è ancora controllata da gruppi radicali e jihadisti. Questa zona è sempre stata considerata da Assad come fondamentale per la riconquista di tutta la Siria ma gli accordi presi con Russia e Turchia avevano bloccato ogni iniziativa. Prendere Idlib aiuterà Assad e i suoi alleati, Russia e Iran, a consolidare una vittoria della guerra civile in corso da otto anni. Come abbiamo visto, Idlib è una provincia particolare. E’ da tempo il rifugio dei siriani sfollati, dei ribelli che hanno paura delle ritorsioni del regime e dei jihadisti. Qui vive una popolazione di più tre milioni di persone schiacciate tra due fuochi.
E’ dal 15 settembre 2018 che la situazione è ferma per una specie di tregua, un accordo Russia – Turchia per la creazione di una zona di de-escalation di 20 chilometri intorno alla provincia. La parte interna controllata dalle forze turche, mentre quella esterna da militari russi. La tregua però è stata interrotta varie volte. La Russia infatti ha accusato la Turchia di non rispettare l’impegno di ridurre l’influenza dei gruppi più estremisti. Dal 30 aprile 2019 ci sono stati molti raid delle forze siriane e russe sulla zona sud della provincia, dando così inizio ad una nuova offensiva su Idlib. La Russia è infatti interessata ad assumere un ruolo importante nel processo di pace siriano, mentre la Turchia vuole invece stabilizzare l’area per evitare flussi migratori verso il suo territorio e limitare la presenza dei curdi siriani nel nord del paese. L’offensiva ha provocato la distruzione di almeno 19 ospedali e centri medici e costretto alla fuga 180mila abitanti della provincia. La Turchia, nel frattempo, ha inviato nuove armi ai ribelli e ai miliziani qaedisti proprio per evitare che la provincia possa tornare nelle mani di Damasco.
Il cantone di Afrin che conta 135.000 abitanti e più di 15.000 profughi, è occupato dalle forze militari turche dall’inizio del 2018, anno dell’operazione “Ramoscello d’Ulivo”.
Il governo turco, ai primi di giugno 2018, ha completato la costruzione di un muro (iniziata nel 2015) di 764 chilometri lungo il confine con la Siria, con la scusa della propria difesa nazionale.
Il confine della Turchia con la Siria è lungo 911 chilometri. La linea quindi che divide i due paesi è stata fondamentale nello sviluppo della guerra: dalla Siria alla Turchia, come passaggio per i rifugiati, dalla Turchia alla Siria, come rotta per i jihadisti e le forze armate turche durante l’operazione “Ramoscello d’ulivo”.
La Turchia, alla fine di aprile scorso, ha iniziato la costruzione di un altro muro di separazione, con l’obiettivo d’isolare il cantone di Afrin dalle zone controllate dalle forze russe e siriane. Il muro in cemento, alto tre metri, si va estendendo per oltre 70 chilometri con lo scopo di incorporare la maggior parte della regione curda. Per realizzare il muro, il governo turco ha demolito circa 20 case ed altre strutture esistenti nella zona. La motivazione ufficiale è quella della “sicurezza”. Proteggere l’area dalle forze curde. In realtà, darà protezione ai gruppi islamisti e riuscirà a spezzare la continuità territoriale curda lungo i propri confini meridionali.
La popolazione però non sta a guardare. Numerose manifestazioni di protesta si sono organizzate in Rojava. La più combattiva e numerosa è avvenuta il 12 maggio scorso nella città di Amude. La co-presidente del Consiglio popolare di Amude, Selva Sileman, ha sottolineato che “così come proseguono le pratiche di espulsione e di sterminio utilizzate dalle truppe di occupazione turche e dai loro alleati jiadisti in Afrin, ugualmente prosegue, sotto gli occhi indifferenti del mondo intero, la costruzione illegale del muro”. La Turchia in questo modo vuole evitare che l’esperimento del Rojava si possa sviluppare anche in altre zone al suo confine.