Il 17 gennaio scorso, l’associazione “Solidarity Action” attivata e diretta dal giornalista Claudio Locatelli, ha inoltrato una richiesta di raccolta di coperte, vestiti, medicinali e volontari destinata ai profughi bloccati lungo la rotta balcanica, da settimane in Bosnia in condizioni estreme. Il racconto poi di una volontaria di ritorno dall’ultimo di tre convogli in quei luoghi, riportato sulla pagina FB dell’associazione, è stato determinante.
“Parole dall’emergenza” – Vanessa.
Sono tornata ieri sera da Bihać (Bosnia) e non so ben spiegare a parole cosa mi abbia lasciato questa breve ma intensa esperienza: sicuramente tanta amarezza, ma è riduttivo.
È vero quando si dice “Se non vedi, se non ci sei dentro non capisci a pieno ciò che sta succedendo”. Il team di Solidarity Action, di cui ho fatto parte (e spero, farò parte ancora in futuro), attivato e diretto da Claudio, ha prestato soccorso a circa duecento profughi, provenienti maggiormente dall’Afghanistan presso una vecchia fabbrica abbandonata dove hanno trovato rifugio.
C’era la neve, l’aria era gelata: alcuni indossano solo le ciabatte da mesi. Le condizioni sono terrificanti ed è un eufemismo: queste persone sono denutrite, tante sono malate e per la legislazione del paese NON possono essere soccorse, tanto che il nostro intervento è stato veloce e nascosto, con la paura che potesse arrivare la Polizia bosniaca da un momento all’altro.
Immaginatevi un ragazzo di 18 anni che proviene da Kabul (dove c’è la guerra), che dopo aver attraversato a piedi l’Iran, la Turchia, la Bulgaria, la Serbia, fino in Bosnia, a 500km da Trieste, a pochi kilometri dalla Croazia – dove andiamo a trascorrere le vacanze in estate – si ritrova bloccato, in mezzo alla neve, senza cibo, senza vestiti, senza acqua, senza riscaldamento, costretto a vivere in vecchi garage e a fare un fuoco con la plastica, perché trovare la legna è difficile.
Queste persone sono NESSUNO agli occhi dei paesi e della legge, non hanno neanche un nome: questo non permette loro nemmeno di recarsi in ospedale, vengono respinti.
Le condizioni igieniche sono per forza disastrose, abbiamo individuato un focolaio di scabbia e un ragazzo, a forza di grattarsi, si è tolto la carne dalle caviglie. Un altro ragazzo ha probabilmente la sifilide, un altro l’epatite (è itterico e ha la febbre alta), un altro ha il gomito rotto perché la polizia croata durante un pushback lo ha picchiato, un altro ancora è stato accoltellato venti giorni fa e molto probabilmente morirà (18 anni, 18). Perché? Perché queste persone sono nessuno.
Sono tutte situazioni che in ospedale potrebbero essere gestite o almeno controllate. È vivere questo? Vorrei scrivere che questa esperienza è stata “umanamente” impegnativa, ma c’è qualcosa che possa essere definito “umano” in tutto ciò? “
Di tutta questa situazione le grandi testate giornalistiche, come le tante televisioni, hanno mantenuto un grande silenzio. Per fortuna, i social e varie agenzie di stampa locali hanno invece dato spazio ai racconti di chi è tornato da quei luoghi raccontando ciò che avevano visto. Così è iniziata una grande campagna di solidarietà verso quegli uomini, donne e bambini fermi ai confini, in condizioni disumane, in attesa di poter raggiungere i luoghi della speranza per una vita “normale” e “sicura”.
La risposta delle persone è stata immediata e massiccia. Questo fa onore e scalda il cuore, ma purtroppo non è sufficiente e, in fondo, rimane sempre un po’ di amaro in bocca.
La rotta balcanica rappresenta ormai da qualche anno la nuova rotta migratoria (vedi: Bosnia, nuova rotta migratoria di Silvia Maraone) da parte di persone in fuga da guerre, fame, miseria e persecuzioni, ferme alle porte d’Europa. I profughi che arrivano dall’Afghanistan e Pakistan passano attraverso l’apertura di una rotta nord-orientale dalla Serbia, mentre per i siriani, da una rotta meridionale (Grecia, Albania, Montenegro, Bosnia). La realtà di quest’emergenza è una questione politica diventata poi umanitaria per l’indifferenza degli stati coinvolti. Nessuno vuole accogliere queste persone, a nessuno interessa la loro storia e il loro futuro. Questi respingimenti sono stati messi in piedi solo per fermare questi migranti. Sono respingimenti illegali. L’Italia, la Slovenia e la Croazia hanno violato le leggi del diritto internazionale e del diritto europeo che, invece impongono di verificarne l’idoneità ed essere riconosciuti come persone che hanno diritto all’asilo politico o alla protezione umanitaria. I respingimenti dalla Croazia alla Bosnia dall’inizio del 2020 sono stati 14.500 e, solo nel mese di ottobre, ci sono stati 189 episodi in cui i migranti hanno subito violenza da parte di uomini in uniformi nere con i volti mascherati.
In una situazione come questa, l’informazione, un reportage o un’intervista sono molto importanti. Anche se possono apparire come solo piccole gocce in un un mare d’indifferenza (intervista di Dire al fotogiornalista Michele Lapini), servono a portare all’attenzione del mondo che una coperta è importante ma non sufficiente per riportare l’umanità al centro della nostra vita.
Alkemia insieme al Circolo Arci Ciro Menotti di Carpi e ai Circoli PD di Modena hanno risposto subito a questa prima richiesta di aiuti verso i profughi in Bosnia, raccogliendo numerosissime offerte ricevute da ogni parte della regione. E’ infatti, grazie a questo, che è stato possibile portare una buona parte del materiale raccolto, alla Onlus “One Bridge To Idomeni” di San Felice di Verona per essere poi recapitato ai campi profughi sulla rotta balcanica.
Al nostro arrivo siamo stati accolti da Pietro Albi, membro e fondatore della Onlus insieme ad un altro militante che, dopo aver scaricato tutto il nostro materiale, ci ha descritto il loro impegno. One Bridge to Idomeni è nata nel 2016 per portare un piccolo aiuto a Idomeni, un villaggio al confine con la Repubblica di Macedonia.
La situazione che si è presentata ai loro occhi è stata terribile: più di 10.000 persone nel fango, al freddo, in un campo informale. E’ da quella data, infatti, che è nata la Onlus. Da cinque anni lavorano ininterrottamente nella rotta balcanica, in Serbia, Bosnia ed Erzegovina e Croazia. La loro missione è quella di portare aiuti umanitari e di costruire progetti per mettere in relazione le persone del luogo con i migranti. Inoltre, il loro obiettivo è anche quello di fornire, al rientro dalle varie missioni, un’informazione diretta alle scuole e ai centri di formazione per promuovere il tema della coabitazione. Come riportato dall’ultimo rapporto UNHCR, va sottolineato che l’informazione che viene data è spesso errata e faziosa. Si parla infatti di un’invasione di profughi, mentre in realtà si tratta di poco più di 16.000 persone in tutta la rotta balcanica. (GUARDA IL VIDEO)
“Oggi, siamo qui per raccogliere questi beni da portare in Bosnia nei vari campi situati sulla rotta balcanica, dove più necessitano aiuti. La Bosnia – continua Pietro, citando le parole della sua amica, Silvia Maraone che lavora per Ipsia, Acli in Bosnia, attivi dalla guerra nei Balcani – è come il collo della bottiglia della rotta balcanica, dove tutti I migranti si sono concentrati”.
Con queste parole, ringraziamo One Bridge to Idomeni, augurando loro buon viaggio con la speranza che la politica voglia assumersi le proprie responsabilità e che possa mettere fine a questa totale disumanità.