Obiettivo: Shengal
Baghdad, 20/05/2023
Dopo due anni, l’Associazione “Verso il Kurdistan” è ritornata in Iraq con due obiettivi: Shengal e il campo profughi di Makhmour. Il primo ha avuto un esito positivo, anche se non è stato esente da difficoltà e da complicazioni, mentre l’altro, non si è realizzato. Il nostro sogno si è spezzato a 20 chilometri dal suo traguardo.
Arrivati a Baghdad abbiamo poi percorso cinquecentocinquanta chilometri per raggiungere Shengal, attraverso una sterminata periferia di case in costruzione, abbandonate o in rovina, baracche in lamiera di vario genere come, officine di ricambi auto, frutta e verdura. Piccoli frammenti di vita. Tutto questo su una carreggiata a due corsie a doppio senso di marcia, a volte asfaltata, a volte invece di terra battuta in mezzo a sterpaglie, sassi, rifiuti tutto avvolto da un vento forte che sollevava nubi di polvere provocando una vera tempesta di sabbia. La strada è continuamente interrotta da molti checkpoint appartenenti a varie milizie, come peshmerga, milizie del governo centrale, turcomanne, iraniane, che controllano le varie fasce del territorio. L’Iraq è uno stato federale e parlamentare e, ogni città o distretto ha le sue regole e autonomia che non vuole perdere, a partire dal non riconoscere nemmeno le possibili aperture del governo centrale. Da Mosul fino a Shengal, abbiamo superato almeno 20 posti di blocco, con un fermo di oltre un’ora e mezza in attesa che una camionetta di militari dell’intelligence irachena ci scortasse a Shengal. Siamo così finalmente arrivati al villaggio ezida di Khanasur, presso la Casa d’accoglienza, gestito dall’Autonomia di Shengal.
Centro per la Salute della città di Khanasur
Khanasur 21/05/2023
Durante l’incontro con il Centro per la Salute della cittadina di Khanasur, abbiamo parlato dei tre progetti in corso nella provincia di Shengal.
Il primo, finanziato direttamente con i fondi raccolti dalla nostra associazione e con un contributo dell’associazione “Fonti di Pace” di Milano, riguarda un presidio sanitario nel villaggio di Serdest.
Il secondo, è un progetto di una clinica mobile a cura di Mezzaluna Rossa Kurda.
Il terzo, è un progetto dell’Arci di Firenze, finanziato con il contributo della Chiesa Valdese, per l’apertura di un altro presidio sanitario in zona.
Il Centro per la salute, dove ci troviamo, non è un vero e proprio ospedale, lo si può considerare un centro sanitario dove si applica una medicina di base. E’ aperto dalle ore 08 alle 24 senza posti letto per una degenza, ma in caso di emergenza, hanno la reperibilità. Per interventi e ricoveri occorre rivolgersi ad altri ospedali come quello a Mosul e Tal Afar. Il personale del centro è composto da 12 persone: un medico, chimici, infermieri, farmacisti e tecnici di laboratorio. Il 90% di loro sono volontari e non percepiscono un salario ma solo un rimborso perché provengono tutti dalla Siria e dal Rojava. Il centro avrebbe naturalmente bisogno di altro personale ma, purtroppo, il governo iracheno non concede l’autorizzazione. Non ci sono specialisti e, per questo, non possono eseguire interventi. Per affrontare questa mancanza, insegnano alle persone l’uso della medicina naturale. Il bacino utenze di questo centro è di 30.000 persone, di cui 5.000 sono anziani che usufruiscono maggiormente del servizio. In un anno, invece, gli accessi sono circa 13.000, numero abbastanza alto perché comprende anche quelli che soffrono di malattie croniche, quindi, con una maggiore necessità. Non ci sono specialisti per i disagi mentali. Le persone quindi con problemi psicologici, che sono, vista la situazione di guerra continua, praticamente tutta la comunità, affrontano i loro disagi attraverso una terapia di incontri di gruppo. All’interno del Centro si trova anche una farmacia per la distribuzione di medicinali. La città di Shengal è dotata anche di un ospedale del governo, ma anche questo senza specialisti. Le donne per partorire possono scegliere di andare presso questo centro oppure anche a Shengal. E’ prevista anche la possibilità di seguire diversi casi a domicilio.
Il Centro sanitario di Serdest
Nel pomeriggio, abbiamo raggiunto il villaggio di Serdest, un insediamento di montagna che letteralmente significa “sopra la piana”, a poca distanza dal Cimitero dei martiri, dove è stato realizzato il centro sanitario che abbiamo finanziato. Si tratta di una piccola comunità di montagna dove vivono cinquemila persone in case di mattoni e fango, baracche fatiscenti, o ancora in tende. Molte di loro arrivano dal Nord Iraq, in quanto le loro case sono state distrutte dall’Isis nel 2014.
Questa struttura sanitaria è un progetto richiesto dall’Autonomia di Shengal, durante il viaggio del 2021, per aiutare quella parte di popolazione che vive ancora nei campi profughi. L’obiettivo è quello di dare loro la possibilità di ritornare nei luoghi di origine, ricostruendo i due servizi primari per la vita delle persone, la sanità e la scuola.
In questi due anni siamo riusciti ad inviare, tramite la Mezza Luna Rossa Curda tedesca, la prima tranche necessaria per iniziare i lavori in muratura. Abbiamo quindi potuto constatato in questo viaggio che la parte muraria della struttura sanitaria era stata completata. Si può quindi iniziare a predisporre l’attrezzatura necessaria per rendere operativa la struttura. Ci spiegano che è già stata individuata la disposizione dei locali. Questi comprenderanno uno studio medico con farmacia per le visite preliminari, uno spazio per l’installazione delle apparecchiature necessarie per eseguire gli esami ematochimici fondamentali ed una stanza con tre letti per interventi di day hospital. Sarà un centro di primo intervento.
La popolazione locale è felice di questa opportunità e lo dimostra attraverso la costruzione di nuove case. Case uguale a stabilità.
Oltre alla cifra che dovevamo consegnare per l’inizio della seconda parte, a causa dell’impossibilità d’entrare al campo di Makhmour, abbiamo dato loro anche la parte che era destinata al campo. Di conseguenza, possiamo considerare questo progetto concluso. Tra poche settimane, quindi, questa struttura sanitaria potrà essere totalmente funzionante.
Lasciato Serdest, ci fermiamo anche nel villaggio di Borek situato sempre nel distretto di Shengal del governatorato di Ninive, abitato da 35.000 ezidi. Incontriamo i rappresentanti del Consiglio. Il loro problema è legato alla sanità. Le medicine qui non arrivano e non hanno medici specialisti, ma solo infermieri. A causa di questo, non sono in grado di far fronte alle emergenze. Infatti, dieci donne, durante la fase del parto, hanno avuto delle complicazioni che purtroppo le hanno portate alla morte.
Vorrebbero quindi costruire un presidio ospedaliero con medici. Si tratta di un progetto molto importante sotto tutti i punti di vista e merita uno studio approfondito che potrebbe coinvolgere più associazioni.
La sera di domenica, dopo un solo giorno di permanenza nella casa degli ospiti a Khanasur, ci siamo trovati in una situazione molto spiacevole. Ci viene comunicato che l’intelligence irachena vuole un nostro video girato al momento, su richiesta dell’ambasciata italiana di Baghdad. Dal momento che questa richiesta ci sembrava alquanto strana, abbiamo contattato il Ministero degli Esteri italiano. Dopo qualche ora, abbiamo ricevuto una telefonata da un funzionario dell’Ambasciata italiana di Baghdad che ha confermato che non sapeva della nostra presenza in zona e che non era stata fatta nessuna richiesta. A questo punto, però, arriva l’ordine, da parte dell’intelligence irachena, per l’intera delegazione, di partire il giorno successivo per Baghdad. Ci sono già le macchine pronte!
La mattina di lunedì partiamo dunque per Baghdad. La nostra intenzione però era quella di non andare all’aeroporto, ma direttamente all’ambasciata italiana per avere una risposta ufficiale.
Poco prima di Mosul, ci fermiamo ad un checkpoint. Iniziano alcune telefonate e, dopo un’ora di attesa, veniamo richiamati indietro, possiamo ritornare. Questo avviene grazie all’impegno del Pade, il partito ezida della libertà e della democrazia, che si è fatto carico della tutela della nostra ospitalità e sicurezza a Khanasur. Ci viene garantita quindi la possibilità di restare a Shengal fino al completamento del programma dei nostri incontri, ossia fino al 26 maggio, ma con un obbligo da dover rispettare. Dovevamo infatti inviare ogni tre ore nostre fotografie o video all’intelligence irachena per poter rilevare la nostra posizione. La scusa adottata era quella di poter monitorare, per la nostra sicurezza, una situazione in cui i droni turchi, violando la spazio aereo iracheno, colpivano spesso la regione di Shengal.
Il nostro programma prevedeva la nostra presenza a Shengal fino al 26 maggio, dopo dovevamo raggiungere il campo di Makhmour. Ma, con tanti punti interrogativi…
Il cimitero dei martiri “Shahid Lak”
Shahid Lak, 22/05/2023
Visitare il cimitero dei martiri “Shahid Lak” è un passaggio necessario se si vuole capire la realtà della popolazione ezida di Shengal. Il cimitero si trova sul monte Sinjar, dopo aver percorso 99 tornanti tra zone aride e diversi accampamenti. File di tombe bianche, giovani vittime della follia di una guerra testimoniano il sacrificio di uomini e donne per la difesa della propria libertà. Fiori sintetici colorati sono deposti sulle tombe e i tradizionali scialli delle donne e uomini di questa terra abbracciano le lapidi. Sulle lapidi sono riportati il nome del martire e tre date: la data di nascita, la data in cui è andato/a a combattere e la data e il luogo dove è stato/a ucciso/a. Al centro del cimitero si trova la tomba di Zeki Sengali, il fondatore del Pkk a Shengal, ucciso il 15 agosto 2018 da un drone turco.
Il nostro interprete ci segnala due tombe, una vicina all’altra. Ci tiene a raccontare quella storia perché conosceva bene uno dei due combattenti e lo stimava. Aveva ventinove anni quando è stato ucciso da un drone lanciato dal governo turco. Vicino a lui, nell’altra tomba, giace suo fratello, ucciso dallo stesso drone. Aveva diciannove anni. Due figli strappati ai loro genitori.
Ricordo ancora le parole pronunciate nel 2021 da una mamma, seduta qui al cimitero: “Sono Bakia, mamma di Bahwer, sono la mamma di un martire, mio figlio è caduto nella difesa di Shengal. Insieme a lui è stato anche ucciso un suo amico, per questo, sono la mamma di due martiri. Noi siamo sulla nostra terra, chiediamo aiuti a tutti gli stati, a tutte le persone che vogliono sostenerci. Tutto il mondo sa quello che è successo. L’Iraq vuole occupare la nostra terra e sconfiggere la nostra forza. Forza (autodifesa) che è nata nel sangue. Siamo stati aiutati solo dai militanti di Ocalan. Da tre mesi siamo isolati, non possiamo andare fuori da questa zona per qualsiasi motivo, pena l’arresto”.
Le parole di Bakia esprimono tutta la preoccupazione per il suo popolo.
E’ in corso un conflitto contro Shengal. Gli attori in campo sono la Turchia, il governo centrale iracheno e quello regionale del Kurdistan.
Incontro con il Consiglio Generale dell’Autonomia di Shengal
Shengal, 23/05/2023
A Shengal City incontriamo il Consiglio Generale dell’Autonomia presieduto da un uomo e da una donna, un co-presidente e una co-presidente.
Vicino alle macerie della vecchia città, si trova infatti la sede dell’Autonomia Democratica di Shengal creata dopo il massacro ordinato da Daesh contro gli ezidi. La sua base è l’Assemblea Generale.
Per la sua gestione, invece è stata creata, nel 2017, l’Amministrazione con diversi comitati che si occupano della vita sociale della comunità, come ad esempio: la salute, cultura e arte, i giovani, le donne e le famiglie dei martiri.
Il consiglio generale, è l’espressione dei 13 consigli presenti in tutta la regione di Shengal (sono tredici i villaggi con le rispettive zone di pertinenza). Ci sono poi le istituzioni che hanno dei comitati (committee) all’interno di questi 13 consigli.
Le persone votano i vari membri del consiglio dei villaggi e poi i membri votano i rappresentanti che andranno al Consiglio Generale. I rappresentanti dei villaggi sono eletti ogni anno, mentre in quello generale ogni due anni. E’ presente anche un Parlamento formato da 101 persone, che nel caso in cui si debba decidere per una destituzione di un membro del Consiglio generale, se il 50% di queste persone danno il loro consenso, la persona viene rimossa. Il suddetto Parlamento viene votato dalla gente tramite normali elezioni. All’interno poi del Parlamento verrà eletto un presidente.
“Nel 2014, con l’invasione dell’ISIS – ci dicono – abbiamo costituito le nostre unità di resistenza e abbiamo, di fatto, istituito l’autonomia amministrativa che si fonda sull’articolo 125 della Costituzione. Per quanto il governo centrale iracheno e il governo del Kurdistan del nord di Barzani cerchino di ostacolarla, cercheremo di difenderla in ogni modo. Le risorse per il funzionamento dell’autonomia provengono solo dalle nostre risorse e dalle rimesse dei nostri concittadini all’estero.”
Dopo le nostre domande per conoscere meglio la situazione in cui vive la popolazione di Shengal, sono loro stessi che si rivolgono a noi per sapere chi siamo, il nostro pensiero e qual’è la vera ragione del nostro viaggio. Tra varie domande e risposte abbiamo avuto così l’opportunità di conoscerci meglio entrambi.
Al termine dell’incontro, i rappresentanti del Consiglio avanzano un’unica richiesta: il riconoscimento, da parte del governo italiano, del genocidio dell’ISIS avvenuto nel 2014.
Oggi, droni turchi hanno bombardato il villaggio di Xelef, vicino a Shengal.
Inoltre, ci comunicano che, per la prima volta oggi dopo dodici anni di assenza, funzionari delle Nazioni Unite hanno visitato il Campo rifugiati di Makhmour.
Incontro con il Taje e con Yazidi Women’s Support Association
Shengal, 24/05/2023
Incontriamo il Movimento della Libertà delle donne ezide, “Taje”, movimento costituito dopo il massacro dell’Isis per dare dignità e speranza all’indomani del dramma subito.
Fino al 2014, infatti, la vita delle donne dipendeva dagli uomini, ma dopo essere state rapite, vendute e stuprate dall’Isis, per difendersi hanno deciso di imbracciare le armi liberando anche molte donne prigioniere.
Tutto comincia quindi nel 2015, sulle montagne di Shengal, dove si sono subito organizzate, creando l’Assemblea delle donne.
Taje lavora per far comprendere a tutta la comunità i valori della libertà e della democrazia, che sono i valori del Confederalismo democratico.
Il loro primo insegnamento, per non essere più una vittima rispetto al passato, è quello di pianificare l’autodifesa ed un’auto-organizzazione. E’ la donna che deve poter decidere come vivere la propria vita. Inizia così una Rivoluzione con l’obiettivo di rivendicare i propri diritti. La donna può ora decidere d’intraprendere anche un lavoro o interessarsi di politica e temi sociali, non essendo più obbligata ad occuparsi solo della sua famiglia. Naturalmente, non tutti gli uomini hanno subito accettato questo cambiamento. Cambiare una società non è semplice, occorre molto tempo, specialmente se sono società patriarcali consolidate nel tempo. E per fare questo si deve innanzitutto credere in un’ideologia, come per esempio quella insegnata da Ocalan che afferma: “finché non si libera la donna, la società non sarà mai libera”.
Ricordo ancora, dopo due anni, alcune parole di Suham Shengali, portavoce del movimento delle donne di Shengal, che a Khanasur alla Casa degli ospiti, affermava:” Quando sono arrivate qui le HPG (Forza di difesa del popolo) e YJA (Unità Donne Libere), ala militare del Pkk e poi successivamente anche le Unità di protezione popolare del Rojava (Ypg e Ypj) a combattere contro l’Isis, non solo hanno salvato fisicamente il nostro popolo, ma sono riuscite anche a restituirgli la sensazione di essere di nuovo umani”.
Quando, infatti, gli individui cominciano a conoscere se stessi ed a usare la loro intelligenza emotiva, saranno anche padroni dei propri pensieri, emozioni e scelte che la vita li obbligherà a prendere. Saranno inoltre in grado di riconoscere e capire i propri limiti ed i punti di forza da utilizzare, con la calma necessaria, per superare i problemi che si presenteranno. Questo è infatti, solo l’inizio di un percorso di consapevolezza dei propri diritti.
Taje, quindi, organizza corsi d’apprendimento per avviare le donne nel mondo del lavoro, a relazionarsi con il maschio, alle pratiche di autodifesa, ad affrontare la violenza subita e, soprattutto, a sostenere e reintegrare quelle donne che si trovano in situazioni difficili e complicate. Anche per le donne stesse non è facile accettare questi cambiamenti. Rifiutano qualsiasi aiuto sia le più anziane, rimaste legate alle tradizioni, che quelle giovani, che hanno subito questo trauma, che non riescono a superare.
Il movimento, in pratica, ha un duplice compito: il primo, verso la donna che deve ritornare ad una vita normale dopo quello che ha vissuto e il secondo, verso la società, che la deve accogliere senza nessun pregiudizio. Per questo cercano di non isolare la donna, ma di farla pian piano partecipare alla vita sociale, dandole compiti o ruoli da svolgere.
In questo nostro incontro nella loro sede di Shengal, rimarcano il desiderio che la loro voce possa arrivare al mondo intero.
Ricordano, infatti, che durante l’invasione dell’Isis, i soldati iracheni e i peshmerga di Barzani, che si erano assunti il compito di proteggerli, sono fuggiti davanti all’invasore, lasciandoli soli. Per questo non si fidano più di nessuno. Sono stati abbandonati a loro stessi e la parte più colpita è stata naturalmente quella delle donne. Quello che ci raccontano sono storie terribili. Un esempio è la testimonianza che ci riporta una donna del Taje: Oltre a rapire e a stuprare, Daesh strappava via i figli alle donne prigioniere. Una donna, alla quale le era stato sottratto il figlio di due anni, aveva smesso di mangiare perche’ voleva solo riavere suo figlio. Per tutta risposta, dopo qualche giorno, le promettano di ridarle il figlio se riprende a mangiare. L’Isis però uccide il bambino e glielo portano cucinato! La madre è naturalmente impazzita,”
E’ inimmaginabile pensare al dramma di queste donne. Niente e nessuno potrà mai far dimenticare loro quei momenti. Per questo il Movimento Taje è importantissimo. Il loro lavoro richiede molta delicatezza, dolcezza ma anche fermezza.
Taje è l’ombrello sotto il quale tutte le donne, non solo quelle ezide, possono trovare un aiuto per sentirsi più sicure e libere.
Il genocidio continua perché viene impedito, a chi vive tuttora in tende nei campi profughi nel Kurdistan, di ritornare nei luoghi d’origine. Dal 2014, circa il 70% della popolazione è fuggita, molti non sono tornati, vittime di una strategia da parte, da un lato, del governo turco e dall’altro, del governo regionale del clan Barzani. Il tutto solo per riuscire a separare la popolazione e a indebolirla. Risultano infatti ancora assenti circa 250 mila persone che sono ancora profughi o vivono in diaspora.
Al dramma delle donne rapite e violate, si unisce il dramma dei bambini nati da questa violenza, bambini senza colpa, ma con un destino già segnato, in quanto non vengono accettati dalla comunità, perchè figli di padri musulmani.
La Casa delle Donne a Khanasur: un luogo di tristi ricordi
La tristezza dei ricordi traspare dai volti delle quattro donne che sono sedute di fronte a noi nel giardino della Casa delle Donne a Khanasur (ndr – incontro giugno 2021).E’ sempre difficile chiedere di raccontare il proprio dolore, ma solo così è possibile riuscire a rendere quel dolore collettivo, farlo diventare così un po’ meno doloroso. La storia di queste quattro donne appartenenti al Movimento Taje, sono un esempio di come sia possibile uscire dalla propria solitudine, lavorando insieme per superare il trauma della violenza e delle perdite subite. In questo modo si sentono utili alla comunità, onorando anche il ricordo dei loro figli.
Bakia, mamma di Bahwer: “Siamo qui per la causa, per i nostri figli, per il nostro popolo”. L’attività del movimento Taje è iniziata nel 2015. Qui arrivano molte donne – continua – non so dire quante, i numeri non sono importanti, noi aiutiamo tutte le donne che ci chiedono aiuto, non ha importanza da dove vengano o quale sia la loro religione”. Bakia racconta poi di quei terribili momenti: ”All’arrivo dell’Isis nel 2014 siamo subito scappati verso il Kurdistan iracheno, ma mio figlio Bahwer, mostrandoci la sua foto sul cellulare, è voluto tornare indietro per combattere e, purtroppo, ha trovato la morte. Aveva solo 20anni, era il quinto di 10 figli, lavorava e studiava, era il più educato. Ora è diventato un martire”.
Lejla, mamma di Agith: “9 figli, l’ultimo è andato a combattere in Rojava nel 2019, dove è rimasto ucciso. Quando la Turchia è entrata in questa città in Siria ci sono stati molti morti e non sanno quindi dove sia il suo corpo. Non ha nessuna notizia. Le milizie hanno preso i corpi dei caduti, anche prelevandoli dai cimiteri e li hanno poi messi su una strada lungo i marciapiedi, in bella vista, come fossero trofei di guerra. Un altro aspetto della brutalità di queste bande: il disprezzo verso i morti, incuranti del valore della vita altrui.”
Suriak, mamma di Mansur: “Aveva 18 anni. Ho perso tre figli. I primi due sono andati a combattere e non sono più tornati. Non so come e dove sono morti. Il terzo studiava, gli piaceva divertirsi, ma nel 2015 anche lui è andato a combattere contro l’Isis a Shengal, anche con la speranza di trovare i suoi fratelli, ma è morto.”
Nujrak, mamma di Esdì. La sua testimonianza è stata molto sofferta. Non riusciva a trattenere le lacrime. Non è certo facile rivivere quei momenti, ma è doveroso, perché raccontare serve a non dimenticare. “9 persone della mia famiglia sono state uccise. Mio figlio, quando è arrivato l’Isis, si era sposato da poco. Siamo tutti scappati. Mio figlio invece ha combattuto ed è morto. Mia figlia era incinta e quando ha avuto il bambino gli ha messo il nome del fratello. Così quando lo chiamo, penso sempre a mio figlio. Il bambino non ha mai conosciuto il suo papà. E il dolore si rinnova”.
Bakia precisa, al termine del nostro incontro, che non sa quantificare i numeri di questa tragedia, lei sa solo che ha perso 19 persone della sua famiglia, tra rapiti e uccisi dall’Isis, di cui tre si trovano nelle fosse comuni. Lei sa in quale fossa si trovano i suoi famigliari, ma nessuno fa niente per recuperare i loro corpi.
Il desiderio di queste donne forti e determinate è la diffusione di tutto quello che abbiamo visto e sentito. “Basta crimini contro di noi – dice Bakia – questa vostra visita non deve essere solo di cortesia ma deve essere anche un messaggio di solidarietà e di conoscenza. Abbiamo bisogno del vostro sostegno. Noi non possiamo accettare protezione da uno stato che è scappato prima di noi”.
Alla fine ci chiedono, con molta angoscia, di presentare una petizione al governo iracheno per sollecitarlo ad aprire le fosse comuni per poter così riavere i corpi dei loro congiunti, prima che sia troppo tardi.
Dopo l’incontro con il Movimento Taje, riceviamo, ancora una volta, la richiesta sempre da parte dell’intelligence irachena, di ritornare a Baghdad, senza rispettare gli accordi presi in precedenza. E’ diventata una tattica di sfinimento. Ma noi non cediamo! Ancora una volta, il partito Pade interviene a nostro favore. Possiamo rimanere fino al 25 maggio per terminare gli incontri previsti, ma poi il 26 dobbiamo lasciare la casa degli ospiti di Khanasur.
Nel pomeriggio possiamo così riprendere il nostro lavoro e incontrare “Yazidi Women’s Support Association” (associazione di supporto delle donne ezide).
Si coordinano con un’associazione del Rojava (House of Ezidi e Units of Resistence in Rojava) per accogliere le donne ezide provenienti dal campo Al Hol per riportarle a casa. A volte, anche loro cercano di andare ed entrare in quel campo, ma è molto difficile. Dal 2015 ad oggi sono infatti rientrate 1500 persone catturate dall’Isis e per la maggior parte sono solo donne e bambini. Nessun uomo.
Dispongono di un’accademia, di una scuola per ragazze dove s’insegna a leggere e a scrivere e di una scuola di sartoria.
Molte ragazze hanno iniziato a studiare solo dopo il genocidio, tante donne di 30-40 anni non sono mai andate a scuola. Un’altra rivoluzione culturale è quindi quella dell’alfabetizzazione e dell’ingresso al mondo del lavoro.
Sono in costante contatto e si coordinano con l’associazione Taje. Per un supporto psicologico, da un anno collaborano anche con la Croce Rossa.
Hanno inoltre tre asili nido con 62 bambini a Khanasur, 35 a Shengal e 60 a Serdest, ma senza nessun supporto economico e senza la relativa attrezzatura.
Inoltre, organizzano anche corsi di cucito per donne in stato di povertà e vedove utilizzando macchine da cucire. Attualmente, le persone interessate sono 15, ma con sole tre macchine da cucire a disposizione. Per questo ci propongono un progetto.
Dopo il corso, infatti l’idea era quella di avere un locale dove le donne potevano cucire gli abiti da mettere poi in vendita, diventando così una loro piccola fonte di reddito. Si tratta quindi di un progetto per aiutare queste donne a ritornare ad una vita dignitosa e non più in solitudine.
Ci lasciamo con buone promesse con la speranza di essere ancora una volta utili per questa comunità lasciata sola.
Shengal City
Shengal, 24/05/2023
Le rovine della vecchia Shengal non sono il frutto del trascorrere del tempo, ma l’effetto della devastazione operata da Daesh che nel 2014 è entrato nella regione di Shengal e che nel 2015 ha raso al suolo questa città.
Distruzione. Solo distruzione.
La zona continua ad essere presidiata dalle forze di autodifesa e la loro presenza, che peraltro è ovunque nel Paese, unita al cumulo di macerie, dà la sensazione di una guerra che continua.
Daesh è stato sconfitto grazie al coraggio della popolazione ezida e delle loro unità di resistenza maschili e femminili, ma la popolazione ora è sotto l’attacco continuo dei droni turchi che quasi giornalmente bombardano i loro villaggi.
La vecchia Shengal si arrocca sulla parte più alta della montagna. A guardarla con le sue stradine strette che si arrampicano, potrebbe ricordarci uno dei nostri borghi ricchi di storia e di bellezza. Ma ormai quella bellezza è solo più nella memoria della gente. Dalla sua distruzione ad oggi e per il futuro, la memoria della vecchia Shengal racconterà una storia intrisa di violenza che la sua gente non vuole dimenticare.
Shengal City si prende così, senza averlo ricercato, il compito di rappresentare le sofferenze di un popolo che della memoria ha fatto tesoro.
Incontro con il Pade (Partiya Azadi’ u Demugratiya Ezidya)
Sinun, 25/05/2023
Scendiamo dalla montagna per incontrare alcuni membri del Pade, il partito ezida della libertà e della democrazia, nella loro sede di Sinun, nel distretto di Sinjar a nord del Monte Sinjar. Il partito che si è fatto garante per noi, per cui ci troviamo sotto la loro protezione.
Incontriamo Selemanhji, il responsabile del partito a Sulaymaniyah.
Il partito è nato nel 2016. Tutto nasce dal genocidio. Sono stati abbandonati da 25 mila milizie irachene e 12 mila peshmerga, allora presenti e che avrebbero dovuto difendere i civili dagli attacchi di Daesh ai villaggi.
Il Pade risponde alle necessità della popolazione con l’obiettivo di fornire i servizi essenziali (come strade, linee elettriche, ecc) e diffondere la democrazia a livello di base.
Prima del genocidio, la popolazione di Shengal era composta da 500 mila persone, ma, subito dopo il massacro, 100 mila sono fuggite in Europa, 350 mila si sono rifugiate nei campi profughi del Kurdistan del nord e 5000 sono rimaste in montagna.
Sono sei anni che si sono liberati dall’ISIS, ma la gente che oggi si trova ancora nei campi profughi iracheni non riesce a tornare, causa i continui ostacoli messi in atto dal governo regionale insieme a quello turco, spaventando i profughi con le immagini delle loro case distrutte dai continui attacchi dei droni turchi nella regione di Shengal e con l’assicurazione della mancanza di un lavoro, scoraggiandoli così a fare ritorno. L’obiettivo è quello di dividere e disperdere la comunità.
Le persone massacrate dall’ISIS sono state circa 5 mila tra uomini, donne e bambini, mentre sono state 6.500 /7.000 le donne rapite.
Gli attuali abitanti in questa parte del Monte Shengal, catena montuosa lunga un centinaio di chilometri che divide a metà il nord e il sud, sono 130 mila, mentre dall’altra parte sono 230/250 mila. Quindi, devono ancora rientrare circa 100/120 mila persone.
Prima del referendum, la popolazione di Shengal faceva parte del Kurdistan iracheno, dopo invece è passata sotto il governo centrale iracheno.
Selemanhji però ci dice che non c’è molta differenza. In base all’art.140 della Costituzione possono scegliere tra i due governi e molti preferiscono quello centrale.
La questione femminile è molto importante per il partito, dove le donne rappresentano il 25% del totale dei militanti. Il loro programma, prima di tutto, vuole garantire lo studio e la libertà per le donne.
La realizzazione dell’autonomia non ha ancora raggiunto il 100%, attualmente è intorno all’80% e le questioni tuttora aperte sono sia quelle economiche che politiche. La causa è dovuta al fatto che gli articoli della Costituzione irachena riguardanti l’autonomia non sono ancora del tutto rispettati. Anche l’Accordo del 9 ottobre 2020, riguardante la regione di Shengal, tra il governo regionale e quello centrale iracheno in coordinamento con le Nazioni Unite, senza però nessun coinvolgimento dell’Autonomia di Shengal, ostacola la realizzazione del programma e il rientro della popolazione. Il partito farà di tutto per difendere la propria libertà ed è pronto ad affrontare un possibile nuovo attacco.
Il gruppo dirigente del partito Pade è formato da 101 persone votate in ogni villaggio. I partiti presenti nella regione sono cinque. Il Pade si presenta solo alle elezioni locali e non a quelle nazionali. Localmente la maggioranza aderisce all’Autonomia, mentre questo non succede a livello nazionale. In tutto l’Iraq ha 12 rappresentanze.
L’Iraq è un paese in guerra, non è unito, ci sono varie milizie che si contendono il territorio e il potere, per questo vogliono autogovernarsi ed autorappresentarsi, ma rimanendo dentro l’Iraq.
Dal momento che sono totalmente contrari al sistema capitalista, mettono in pratica il sistema circolare di Ocalan, attraverso il principio dell’uguaglianza all’interno delle varie istituzioni. La gente decide e il partito fa.
Anche il Pade richiede che l’Italia riconosca il genocidio del 2014.
Incontro con le YBS/YJS
Shengal, 25/05/2023
Il nostro programma termina con l’incontro con le unità di difesa ezida (YBS/YJS), maschili e femminili.
Sono presenti un uomo e una donna che ci parlano dell’odierna situazione.
“Se vuoi proteggere la tua comunità – così inizia il rappresentante delle YBS – lo devi fare in prima persona. Così è nata lo voglia di formare un’unità di difesa al posto di quelli che ci hanno abbandonati e traditi. Il primo obiettivo è quello di proteggere la tua comunità e se sei un soldato hai la possibilità di morire. È stato combattuto l’Isis, ma la guerra continua con i doni turchi. Non vogliamo interferenze. Altre forze di unità hanno preso esempio da quelle ezide. La liberazione è partita proprio da Shengal. Combattere l’Isis è stato molto difficile. I morti sono stati 600 soldati e 1000 i feriti”.
Le migliaia di persone che compongono le due unità di difesa sono tutti volontari ed hanno medesimi obiettivi, la stessa cultura e la stessa lingua.
Ogni villaggio ha più di una fossa comune. La maggior parte sono ancora chiuse. Il processo per aprirle e permettere cosi ai familiari delle vittime di poter avere il corpo di chi è stato ucciso, è molto delicato e complicato.
L’impegno per evitare che il genocidio continui è molto alto.
Ci lasciamo rimarcando il fatto che l’attacco Isis è stato proprio programmato per annullare il popolo e la cultura ezida.
30/06/2023
Fonti: Report della delegazione italiana – Il Manifesto – Dinamo press –
Foto reportage: Mirca Garuti (red. Alkemianews.it)