Il controllo del territorio
L’anima principale di tutto il Kurdistan risiede nei guerriglieri. Riusciamo ad incontrarli in varie circostanze. Il problema principale rimane sempre quello di come affrontare la necessità di curare i feriti dei combattimenti contro l’Isis e sulle montagne di Qandil nelle offensive con l’esercito turco. In Rojiava non ci sono medici. C’è quindi il bisogno di trovare luoghi sicuri dove poter fare fisioterapia, riabilitazione e convalescenza. La prima cosa che ci chiedono riguarda il valore della rivoluzione e l’unione dei popoli in lotta. L’Italia ha vissuto l’occupazione e la resistenza, perché quindi rimane in silenzio nei confronti dei diritti del popolo curdo? Noi sentiamo la responsabilità di questa indifferenza, ma purtroppo il nostro governo ha fatto scelte diverse dalle nostre e l’informazione ufficiale omette la realtà dei fatti. Per questo il nostro obiettivo è informare, raccontare, documentare quello che succede in questi luoghi. Rompere il silenzio che avvolge la storia di questo paese.
I combattenti sono giovani, sicuri, non temono la morte perché la loro forza viene dall’ideologia. Gli dà la forza di combattere per ottenere una vita dignitosa e libera da ogni schiavitù.
Lasciare la famiglia è una scelta importate. Significa decidere di mettere la propria vita al servizio della causa, vivere nella speranza di una futura vittoria per il proprio popolo.
Un combattente sottolinea che le rivoluzioni nel mondo sono sempre state capeggiate dagli uomini, mentre quella professata del loro leader Ocalan, è diversa. E’ una rivoluzione per tutti quelli che soffrono, con al centro la lotta della donna per la sua emancipazione.
Il discorso con i guerriglieri scivola naturalmente su quello che rappresenta il Rojava e Cizre. L’autogoverno del Rojava mette in pratica la politica elaborata dal PKK: il Confederalismo Democratico. Questo è il risultato di un lungo percorso di analisi avviato principalmente dal suo presidente Ocalan. Una profonda critica al capitalismo e non più l’idea di uno Stato-nazione ma la costruzione di una società dal basso che metta al centro le persone e le comunità. Costruendo reti federative di assemblee territoriali, di villaggi, di quartieri ed eliminando il potere statale.
In Rojava già prima del 2011 esistevano nuclei di autodifesa militare (YPG e YPJ) e organizzazioni politiche/militari che, grazie alla loro preparazione, hanno dato la possibilità alla popolazione di reagire e sopravvivere quando è iniziata la guerra in Siria. Grazie a questo, la zona del Rojava è così diventata una zona più stabile e vivibile, meta quindi dei profughi che scappavano dal resto del territorio.
L’obiettivo dichiarato dalle milizie popolari è l’autogoverno della regione e la sua difesa. Un ruolo difensivo perché il Rojava non ha “protettori” su cui contare, anzi rappresenta la diversità al modello di gestione del Medio Oriente fondato sulle rivalità e le varie confessioni. Le unità di difesa del popolo e del territorio, YPG e YPJ, nonostante il loro ruolo, sono considerate dalla Turchia come un “gruppo terrorista”. La risposta di questa posizione la si trova nei disegni politici di Erdogan.
Rojava: territorio di una nazione contesa
Il Rojava è diviso in tre cantoni: Cizre, Kobane e Afrin, ciascuna con una propria autonomia amministrativa e costituzionale.
Afrin è una città siriana che fa parte dell’omonimo distretto sotto il Governatorato di Aleppo. Prima dell’inizio della guerra civile in Siria (15/03/2011) ad Afrin vivevano circa 40.000 persone in prevalenza curdi. Nel 2012 l’esercito di Bassar al-Asad si ritira da tutto il Rojava e si formano così consigli comunali confederati guidati dal PYD, Partito di Unione Democratica a maggioranza curda, ma anche con appartenenza di altre etnie. In tutti i distretti viene adottato il Confederalismo Democratico. Successivamente Afrin, considerata ancora una zona sicura, ospita alcune centinaia di migliaia di profughi provenienti da Aleppo e da altre zone della Siria in fuga dalla guerra.
Il 20 gennaio 2018 inizia con un bombardamento, l’operazione “Ramoscello d’Ulivo” delle forze armate turche. Obiettivo dell’offensiva è distruggere il PYD e la sua ala armata YPG. Erdogan parla di “eliminazione del terrore” ma, in realtà, vuole solo eliminare la nazione ed il popolo curdo. Ankara vuole infatti creare una zona cuscinetto tra la Siria e la Turchia libera dai “terroristi” legati al PKK, spezzando così la continuità territoriale curda lungo i propri confini meridionali. L’aviazione turca devasta il cantone curdo anche con l’aiuto delle milizie dell’Esercito libero siriano che saccheggiano villaggi e uccidono migliaia di miliziani curdi. L’offensiva dura 60 giorni: dal 20 gennaio al 22 marzo 2018, conclusa con la resa di Afrin, caduta per l’uso di jet ultra moderni dell’aviazione turca. Il tutto nella neutralità e nel silenzio del governo di Damasco, della Russia e di Stati Uniti.
Zerocalcare il 20 marzo ‘18, in un’intervista rilasciata al quotidiano “Repubblica”, afferma che: “Afrin cade per mano della Turchia. Sotto gli occhi di tutti. E nessuno fa niente. Ci stiamo assuefacendo all’orrore”.
Da quel giorno, l’autonomia del cantone è finita. Afrin si trova ora sotto controllo dell’Esercito libero siriano ma i responsabili militari e politici delle forze curde continuano la loro lotta di resistenza in clandestinità.
60 giorni di scontri hanno provocato quasi 1000 vittime tra la popolazione civile. Chi è sopravvissuto è stato allontanato a forza fuori da Afrin e da tutte le altre province curde perché definite dai turchi non sicure. Le stesse zone che poi sono state ripopolate con civili e gruppi ribelli amici di Ankara. Purtroppo il piano di Erdogan ha funzionato: fuori i curdi fuori e le città svuotate dai suoi oppositori. Ma fino a quando?
La città di Cizre, sulla linea di confine con l’Iraq e Siria, è ricordata per il massacro ed il crimine contro l’umanità che ha subito dal 14 dicembre 2015 al 11 febbraio 2016 (data ufficiale della fine delle operazioni). Una città sotto coprifuoco ininterrotto per 79 giorni, con 3mila palazzi bombardati dall’artiglieria turca: quasi 500 morti, colpiti da cecchini o lasciati morire sulle strade, migliaia di sfollati e centinaia di arresti. Un massacro che, per la sua brutalità e atrocità, ricorda Sabra e Chatila in Libano nel 1982. Persone (178 civili) rifugiate negli scantinati di alcuni edifici, assediate e bruciate vive dalle truppe turche, senza neppure dare la possibilità ai soccorsi di portare fuori i corpi. L’Alto Commissario per i Diritti Umani delle Nazioni Unite definì le atrocità nel distretto “una scena apocalittica”. Anche molte organizzazioni per i diritti umani hanno sottolineato che questi attacchi contro i civili costituiscono crimini di guerra.
Il calore e l’affetto dei combattenti curdi
L’incontro con altri guerriglieri e guerrigliere, scesi dalle loro postazioni per incontrarci, è stato molto intenso. Davanti a me persone sicure della loro scelta; persone che credono nell’uomo come figura centrale di tutto il sistema. Ricordano la filosofia di vita del loro presidente Ocalan: “Combattere per tutta l’umanità senza nessuna distinzione di etnie, siamo tutti uomini”. Fare una rivoluzione significa prima di tutto impegnarsi, studiare, lavorare su tanti fronti e la cultura è la parte più importante. L’identità umana è stata modificata nel corso degli anni ed oggi la si deve recuperare. Il loro obiettivo è quello di essere al servizio del popolo. Non è importante sapere da dove vengono, la loro storia, importante è essere dove c’è bisogno di loro. Combattono con le armi, ma anche con le idee e con il pensiero, contro il sistema capitalista. Il mondo è sporco ma bisogna andare avanti e l’unione delle persone e dei popoli, è il segreto per riuscire a combattere il male. Anche se purtroppo non basta!
Combattenti Italiani
Dalla Siria, oggi 18 marzo è arrivata la terribile notizia della morte del volontario italiano Lorenzo Orsetti. E’ rimasto ucciso in un’imboscata con il suo battaglione dalle milizie dell’Isis a Baghuz, ultima roccaforte jihadista nella parte orientale della Siria nella provincia di Deir Ezzor. La notizia mi ha colta proprio nel momento in cui scrivevo del mio incontro con i guerriglieri. Una coincidenza da lasciare attoniti.
Le parole di Lorenzo, detto Orso, dal nome di battaglia di Tekoser (lottatore) pubblicate subito dopo la sua morte dai compagni delle Unità di difesa curde Ypg, sono le stesse parole pronunciate dai guerriglieri incontrati. “Sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e la libertà e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, uguaglianza e libertà”.
La scelta di partire per andare a combattere, in questo caso specifico, a fianco del popolo curdo, è una scelta ponderata, non è il frutto di un colpo di testa improvviso per sentirsi importanti e indispensabili. Una scelta di speranza per una vita dignitosa e libera per tutti, dopo aver vissuto una serie di esperienze sul campo, compreso addestramenti fisici e culturali, consapevoli di mettere a rischio la propria vita. Non tutti però comprendono il “sacrificio” di Lorenzo e di tanti altri come lui. La notizia è certamente apparsa su tutti i canali televisivi e sul web, si è parlato della lotta dei curdi contro l’Isis, ma quanti hanno capito la scelta fatta da Lorenzo? La maggior parte delle persone si sono dispiaciute per la sua morte, ma hanno anche pensato: “…ma perché è andato proprio lì dove c’è la guerra? Non poteva rimanere a casa tranquillo? Evidentemente in Italia non aveva niente e nessuno!”
Chi non fa militanza e non è mai andato a vedere in prima persona ciò che succede nel mondo, come chi rimane chiuso in se stesso e non riesce ad avere una visione più ampia, non può comprendere che le guerre apparentemente lontane da noi sono anche nostre.
L’elenco delle persone rimaste uccise è lungo e vario (Lorenzo, Giovanni Asperti, Vittorio Arrigoni, Rachel Corrie ecc.) ma non è sufficiente per prendere piena coscienza delle motivazioni delle loro scelte. Tutti loro hanno messo la propria vita al servizio dell’umanità. Il loro sacrificio è uguale a quello che ha spinto molte migliaia di persone (si stimano 40.000) di tutto il mondo, (55 nazioni diverse) negli anni dal ‘36 al ‘39, a raggiungere la Spagna per dare il loro contributo nella guerra civile che si stava combattendo. Una guerra contro una dittatura e il fascismo che avanzava. E oggi forse la storia si ripete.
Ma il sistema politico e giudiziario in Italia come tratta questi miliziani ?
L’ambiguità è ormai evidente. Se da una parte, lo Stato islamico viene definito il male assoluto ed i suoi miliziani assassini da sconfiggere, dall’altra alcuni tribunali italiani sono pronti a richiedere la sorveglianza speciale per quelli che sono tornati dopo averlo combattuto. La motivazione è che sono diventati pericolosi per la società in quanto sono in grado di saper sparare ed hanno maturato idee politiche ritenute pericolose. In pratica, puoi andare a combattere ma per ricevere una preghiera, un riconoscimento, un ringraziamento devi morire, perché se invece torni a casa sano sarai ritenuto troppo “pericoloso” per questa nostra Italia.