Il nuovo anno è iniziato con l’ennesima azione di morte contro aree civili.
La Turchia, martedì 1 febbraio verso le ore 22, ha dato avvio ad una campagna di bombardamenti sistematici in tutto il Kurdistan. Ha colpito chi ha combattuto l’Isis e rappresenta anche un esempio della messa in pratica del Confederalismo Democratico sostenuto da Ocalan, leader del Partito dei lavoratori del Kurdistan.
Queste azioni di morte contro aree civili, non dovrebbero essere accettate da un mondo, “democratico”, come spesso invece viene definito. Un Silenzio che getta una coltre fitta di nebbia su questi avvenimenti, come se tutto fosse “normale”. Mentre in realtà, di “normale” non c’è proprio nulla.
Questo nuovo crimine di guerra avviene dopo pochi giorni dall’attacco realizzato dallo Stato islamico alla prigione gestita dai curdi di Sina’a nel quartiere di Ghiweiran a Hasake nel nord-est della Siria, per liberare i prigionieri fedeli al Califfato (circa 5000 detenuti dell’Isis ).
La prigione di Sina’a in realtà è un ex edificio scolastico, quindi non può avere una struttura adatta a contenere in sicurezza migliaia di detenuti pericolosi. Inoltre, va anche considerato che, le decine di migliaia delle loro mogli e figli, detenuti nel vicino campo di Al Hol, rendono più difficile il compito dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord-Est, conosciuta più semplicemente come Rojava (AANES), di mantenere la regione e il mondo liberi dal terrore dell’Isis. Infatti , molto spesso nel campo di Al Hol ci sono aggressioni, uccisioni, incendi dolosi da parte dei detenuti dell’Isis contro il personale di sicurezza ed altri detenuti del campo. Il mondo intero ha quindi lasciato all’autonomia del Rojava la responsabilità di dover gestire il grande numero di stranieri presenti nell’area, in quanto nessuna nazione vuole rimpatriare i propri foreign fighter nei paesi d’origine. Una prigione, quindi, destinata solo a scoppiare.
Anche la data scelta per l’attacco alla prigione non è stata lasciata al caso. Il 20 gennaio, infatti, rappresenta l’anniversario del Contratto Sociale del Rojava, promulgato nel 2014. Il Rojava è dunque una Federazione di regioni autonome nella parte settentrionale della Siria, fondata sul pluralismo etno-culturale ed il decentramento politico economico.
L’assalto alla prigione è iniziato con un’esplosione di un’autobomba all’esterno della struttura. Subito dopo, oltre 200 membri dell’Isis armati hanno aperto il fuoco contro le forze di sicurezza e, allo stesso tempo all’interno, i prigionieri hanno iniziato a ribellarsi, bruciando coperte per creare confusione, fino a prendere il controllo di una parte del carcere. Le Forze Democratiche Siriane (SDF), formate da milizie curde, arabe e assiro-siriache, hanno immediatamente inviato rinforzi per chiudere il quartiere e forze speciali per catturare i prigionieri evasi. Le SDF per 5 giorni hanno respinto gli attacchi dei miliziani dall’esterno della prigione, contenuto le rivolte all’interno e ripulito l’area casa per casa per catturare i miliziani barricati nelle abitazioni usando i civili come scudi umani.
Le SDF, inoltre, hanno dichiarato che l’attacco è stato organizzato e perfettamente coordinato; che i miliziani avevano armi, munizioni e logistica sufficiente per combattere per 5 giorni in stato di assedio; che i combattenti erano ben addestrati e, tra quelli uccisi o catturati, c’erano molti foreign fighter.
La Turchia ha avuto un ruolo determinante nell’assalto alla prigione. Ha fornito una copertura aerea per l’assalto dell’Isis, intensificando i suoi attacchi da Nord, impegnando così le SDF su altri fronti, colpendo, per esempio, una colonna che si stava dirigendo ad Heseke per dare sostegno alle forze di sicurezza, con droni e aerei militari. L’attacco alla prigione si è concluso il 26 gennaio con la vittoria delle SDF sconfiggendo così il tentativo di far rinascere l’Isis.
Il sostegno della Turchia ai jihadisti è quindi chiaro e l’attuale silenzio della comunità internazionale, rappresenta il fallimento della sua politica. Non a caso, tutti gli appelli rivolti ai governi occidentali, volti ad istituire un tribunale internazionale per i crimini di guerra dell’Isis e a rimpatriare i propri foreign fighters, sono caduti nel vuoto più assoluto.
I caduti nello scontro alla prigione di Haseke durante l’attacco dell’Isis sono stati 121, di cui 77 membri dello staff della prigione e 44 combattenti delle Sdf.
Secondo l’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est, come riportato dall’articolo de “Il Manifesto” di Chiara Cruciati, c’è un legame diretto tra l’assalto alla prigione e l’avvio di queste incursioni.
“Quando l’Isis perde, lo Stato turco aumenta gli attacchi” ha detto all’Agenzia Anf Salih Muslim.
La Turchia e l’Isis sono partner sia strategici che ideologici, che normalmente agiscono nello stesso momento.
Fallito il tentativo dei mercenari dell’Isis di liberare i prigionieri nella prigione di Hasake, la Turchia, ha messo in atto dunque una nuova campagna militare chiamata “Aquila d’inverno” su molteplici obiettivi: sul campo profughi di Makhmour nel Kurdistan iracheno; su alcune zone abitate da curdi yazidi vicino a Shengal e su villaggi del Rojava (Siria settentrionale). La motivazione dell’attacco riportata da Ankara è quella del diritto di difesa contro le forze, considerate terroristiche, del Pkk e dei suoi affiliati, con l’unico scopo di poterle neutralizzare. La verità risiede solo negli obiettivi politici della Turchia. Il resto è solo propaganda ed immagine.
L’incursione sul campo profughi di Makhmour, purtroppo, non è stata una novità, non è la prima volta che questo accade, anzi, è successo molte volte, troppe, direi! (vedi Makhmour campo resistente)
Il campo di Makhmour è un’oasi nel deserto abitato dal 1998 da 12/13mila persone, scappate dalla Turchia nel 1993, dove non possono più tornare.
Colpire questo campo, significa attaccare un importante simbolo di resistenza. Una Resistenza testimoniata da quanto questo popolo in fuga sia riuscito a costruire, in un luogo senza acqua ai piedi di colline di pietra. Un luogo dove, in realtà, il loro destino avrebbe dovuto essere solo una morte certa.
Si bombarda un campo, dove vivono donne, ragazzi, bambini e uomini alla ricerca solo di una vita dignitosa e libera. Dal 2011 i residenti del campo profughi hanno ottenuto dalle autorità irachene lo status di rifugiato. Per questo, il “silenzio occidentale”, diventa sinonimo di complicità, a cui non si sottraggono le Nazioni Unite, l’Unione Europea, Nato e Consiglio d’Europa, che hanno scelto di chiudere gli occhi di fronte a queste azioni di forza, per accettare, invece, i benefici di una alleanza con la Turchia.
Il campo profughi di Makhmour, ufficialmente è sotto la responsabilità del governo centrale iracheno, ma in realtà, non riceve da Baghdad alcun supporto. Da maggio 2018, l’Onu ha dismesso tutta l’assistenza al campo, causa le pressioni di Turchia e KDP. La popolazione del campo è quindi soggetta alle condizioni più avverse. Oltre a tutto questo, dal 19 luglio 2019 si trova sotto totale embargo, imposto dalle forze di sicurezza del governo regionale del Kurdistan iracheno (KRG). E’ proibito entrare e uscire dal campo, neppure per emergenze mediche. Il campo, che si trova anche in una posizione strategica, fungendo da crocevia per il Kurdistan meridionale, ha subito molte incursioni sia dalle forze turche e sia dall’Isis.
l’Isis è ancora attivo intorno a Makhmour, grazie anche al supporto logistico dello Stato turco e del Kdp (Partito Democratico del Kurdistan). Inoltre, è uno degli obiettivi del regime turco neo-ottomano. Aerei da guerra e droni turchi sorvolano molto spesso il campo, terrorizzando così la popolazione, che si chiede, con apprensione, quando sarà il prossimo attacco. Il fine del regime turco è sempre stato, la distruzione del campo di Makhmour.
Il bilancio, non ancora ufficiale, di questa nuova incursione turca è di otto morti, di cui sei civili e due addette alla protezione del campo e di almeno venti feriti gravi trasportati in ospedali di alcune città arabe dell’Iraq. Inoltre, ci sono state molte persone con sintomi di avvelenamento, causa, molto probabilmente, dell’uso di armi chimiche durante l’attacco. Al momento non si possono ancora avere stime precise sul numero dei feriti meno gravi e dei danni alle varie strutture, ma sappiamo che molti hanno bisogno di soccorso che, causa l’embargo in atto e con un solo ospedale, diventa molto complicato e difficile. (vedi L’appello da Makhmour)
A Shengal, (vedi: viaggio a Shengal) prima dell’attacco dell’aviazione turca, l’atmosfera che si respirava era di pericolo, causa i massicci movimenti militari dell’esercito iracheno. La comunità yazida aveva chiesto il ritiro delle truppe irachene:
“Nessuno può vivere in pace se l’esercito si intromette nella nostra vita a Xanesor, Sinûn e Shengal. Shengal era la zona più tranquilla dell’Iraq, ma l’esercito iracheno ha schierato qui un enorme contingente di truppe negli ultimi giorni. Quando ne chiediamo la ragione dicono che sono venuti per motivi di sicurezza. Queste unità sono composte da persone di Shengal, tutti le conoscono e conoscono la popolazione. L‘esercito si è trasferito qui per arrestare i giovani yazidi.”
Nell’incursione turca, della sera di martedì 1 febbraio, sono stati uccisi a Shengal tre civili, colpiti vari villaggi e ventuno postazioni delle forze di autodifesa Ybs.
Nella Siria del nord-est a Derik, la Turchia ha colpito una centrale elettrica e sono stati uccisi quattro membri delle Sdf. L’attacco è iniziato mentre a Kobane, Qamishlo e Derik si svolgevano i funerali dei 121 martiri caduti nell’assalto alla prigione di Sina’a dallo Stato islamico.
Non è un caso che questi attacchi della Turchia, rivolti principalmente contro zone controllate dal Pkk, amministrate seguendo i principi del Confederalismo Democratico, siano stati effettuati all’indomani della conferenza stampa dove le Forze Siriane Democratiche avevano dichiarato di aver completato le operazioni per il controllo della prigione di Hasake.
La realtà è che la Turchia e i suoi alleati jihadisti, con il permesso delle potenze che controllano lo spazio aereo (Russia e Stati Uniti), continuano indisturbati l’opera di destabilizzazione e di attacco a questi territori. Mentre sul campo restano, ancora una volta, solo molte vittime, sia tra i combattenti e sia tra la popolazione civile.
Per tutto questo, Uiki, l’Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia, ha lanciato un Appello per una mobilitazione nazionale in Italia per il 12 febbraio prossimo a Roma e Milano per la liberazione di Abdullah Ocalan “Il tempo della libertà è arrivato”.
Ocalan si trova da 23 anni imprigionato in una fortezza sull’isola di Imrali, dove per oltre 10 anni è stato l’unico prigioniero. Il suo continuo isolamento si basa su pratiche considerate illegali sia dalla magistratura turca che da quella internazionale. Solo attraverso molteplici mobilitazioni, si è riusciti, a volte, ad interrompere questa segregazione ed a consentire ai suoi avvocati o familiari di poterlo incontrare per verificare anche il suo stato di salute.
Oggi è necessario quindi spezzare il silenzio che avvolge il popolo curdo attraverso le politiche del governo dell’AKP di Erdogan e rompere l’isolamento di Ocalan. La sua liberazione significa dare una nuova prospettiva di pace e di democrazia a tutti i popoli del Medioriente.
Fonti: Retekurdistan Italia su Telegram – Il Manifesto -Radio Onda D’Urto – Report di KNK –