Il Genocidio Ezida: Un popolo intero ne chiede il riconoscimento

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di Carla Gagliardini*

Se dovessimo chiedere a qualcuno che cosa gli evochi il termine “Ezida”, rimarremmo sorpresi nel ricevere una risposta. E’ una colpa non essere in grado di esprimerne il significato? Probabilmente no. In una società martellata da informazioni di ogni genere, non conoscere ciò che esiste a centinaia di migliaia di chilometri dalle nostre case non può essere una colpa, né segnare necessariamente un disinteresse.
Ma per chi a quella domanda sa dare la risposta, diventa un impegno divulgarne la conoscenza.
Già, perché ezida è una comunità di uomini e donne insediata da millenni nella regione di Shengal, nel nord-ovest dell’Iraq, al confine con la Siria. Parliamo dunque di gente in carne ed ossa, con le proprie aspirazioni, i propri progetti, i propri sogni.

Che cosa ha di tanto speciale questa popolazione da dover richiamare l’attenzione, quanto mai necessaria, non solo nostra, di semplici cittadini e cittadine, ma dell’intera comunità internazionale?
La facciamo breve e la diciamo schiettamente, senza suspence e lo facciamo ad alta voce, nella speranza che anche chi non vuol sentire alla fine sia costretto a percepire il suono di un altro terrmine: GENOCIDIO!
Le parole non vanno usate a vanvera, vanno dosate e pesate prima di essere pronunciate perché non devono perdere il loro senso, rischiando di essere svuotate del loro significato immediato e profondo.
Ma quello che è successo alla popolazione ezida, a partire dal 3 agosto del 2014, è certamente un genocidio. Con quale altra parola si potrebbe, altrimenti, definire l’uccisione di circa 10.000 persone, il rapimento di 5.000, prevalentemente donne e bambini, il tutto avvenuto in un lasso di tempo brevissimo, con la furia dell’aggressore, l’Isis, che violentava quella regione e le sue donne, costringendo un popolo intero ad un esodo verso la montagna dove trovare salvezza, ma dovendo sfidare ancora la morte, questa volta per sete e fame. Uomini, donne e bambini si sono messi in cammino, lasciando tutto alle spalle, per sottrarsi alla ferocia dello Stato islamico.
E’ precisamente in quella data che gli ezidi si riconoscono come vittime del 74° ferman, genocidio appunto, della loro storia.

Oggi la regione di Shengal è abitata da meno della metà della sua popolazione originaria che, prima dell’attacco dell’Isis, contava 500.000 persone. La maggior parte di coloro che non è ancora rientrato vive nei campi profughi del Kurdistan iracheno, mentre circa 100.000 ezidi hanno raggiunto l’Europa, prevalentemente ricostruendo la loro vita in Germania, e di circa 3.000 non si conosce la sorte ma si presume che una parte, in maggioranza donne e bambini, viva nel campo profughi di Al-Hol nel nord-est della Siria, sotto il controllo delle milizie dell’Isis.

Viene da chiedersi perché tanti tentativi di annientare e cancellare un popolo che ha una lunga storia da raccontare. Le ragioni affondano nel credo di questa gente. Gli ezidi sono bollati, ieri come oggi, di essere una setta eretica. Con l’uso della coercizione, fino ad arrivare a veri e propri massacri, la popolazione ezida ha patito il ripetuto tentativo di conversione alla religione islamica.
Quando l’Isis, il 3 agosto 2014, ha riversato la sua brutale violenza su questa popolazione aveva come intenzione quella di conquistare la regione di Shengal, strategicamente indispensabile per creare una linea continua verso i territori già conquistati della Siria, ma aveva anche la volontà di spazzare via la popolazione ezida, di cancellarla dalla faccia della terra, rea di professare un culto che, secondo l’interpretazione diffusa che l’islam dà del credo ezida, adora Satana.
Anche la violenza perpetrata ai danni delle donne, senza sconti di età, ha contribuito a disegnare il quadro genocidiario dell’Isis. Gli abusi sessuali sofferti, infatti, non miravano esclusivamente ad umiliare un popolo colpendo le sue ragazze e le sue donne attraverso il più miserabile e maschilista dei crimini, lo stupro, ma puntavano a deprivare dell’identità le vittime.

Le donne ezide che hanno patito l’orrore della violenza sessuale nel periodo in cui sono state rapite dai militanti dell’Isis e che successivamente sono state liberate o sono riuscite a scappare, testimoniano di un dramma interiore legato alla crisi identitaria che le ha travolte. Per la religione ezida sono esclusi rapporti sessuali con persone appartenenti ad altra religione. La violenza subita dalle donne da parte dei militanti dello Stato islamico, che professano l’islam, costituisce un problema all’interno della comunità. Le donne dunque devono affrontare anche il rischio di non essere riammesse nella società ezida. Ancora oggi è escluso un loro reinserimento se, a causa delle violenze subite, hanno partorito un figlio il cui padre non appartiene alla comunità ezida. A queste donne viene chiesto di abbandonare il figlio. Solo a questa condizione saranno riaccolte. Un dramma nel dramma che appesantisce le spalle di quella parte di umanità che nelle guerre paga quasi sempre il prezzo più alto.

Ma è un’intera comunità ad essere ancora fortemente provata, nonostante l’Isis sia stato cacciato dalla regione di Shengal nel 2017.
E’ toccante sentirsi dire da un giovane membro della società ezida, attivo nell’impegno quotidiano di realizzare i servizi (sanità, istruzione, ecc.) di cui le comunità sparse tra la valle e la montagna di Sengal necessitano urgentemente, che tutto il suo popolo ha bisogno di un sostegno psicologico, nessuno escluso, perché quello che è stato attraversato a causa della violenza del Califfato ha lasciato ferite così profonde che la libertà riconquistata da sola non è sufficiente a curare il dolore e la paura.

La popolazione ezida, nonostante tutte le difficoltà, non si arrende. Dalla tragica esperienza iniziata in quel terribile 3 agosto 2014 ha imparato più di una lezione. La prima: autodifesa, perché i peshmerga e l’esercito iracheno, che erano schierati a difesa della regione, l’hanno tradita, scappando, lasciandola indifesa in balia dell’Isis. La seconda: autonomia, perché l’art. 125 della Costituzione irachena lo consente e la comunità ezida vuole autodeterminarsi, scegliendo come scrivere il proprio futuro. La terza: riconoscimento internazionale del genocidio ezida perché, solo attraverso questo, sente che la propria storia e la propria comunità non cadranno nell’oblio.

Sono queste le ragioni per le quali il termine ezida deve essere diffuso, raccontato e il cammino del suo popolo spiegato, perché è la storia di una comunità che chiede di esistere, di autodeterminarsi e di non dover mai più soffrire un altro ferman. Questo popolo, maturato attraverso l’ultimo genocidio subito, aprendo la vita politica alle donne come risorse necessarie per la costruzione di una società forte e orgogliosa, si è organizzato ed è pronto a difendersi. Ma adesso tocca anche a noi, ai nostri paesi, alla comunità internazionale farsi carico della sua tragedia, accogliendo la sua richiesta di riconoscimento dell’ultimo genocidio subito.

(Appello per il riconoscimento del Genocidio Ezida del 2014) 
(Viaggio a Shengal tra il popolo Ezida vittima senza tempo (1°p.) 

11/06/2023

* attivista “Verso il Kurdistan – odv” – Alessandria