CINQUE DONNE EZIDE, ANCORA A CACCIA DI GIUSTIZIA

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In disaccordo con le decisioni delle corti australiane che negano loro il risarcimento per le violenze subite dall’ISIS, cinque donne ezide e i loro avvocati chiedono giustizia al Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura.

di Carla Gagliardini

Per fortuna esiste una società civile militante e non indifferente e qualche professionista che è dedito/a non solo a fare il proprio lavoro ma anche a cercare di cambiare la politica di un paese o quella internazionale. Quante siano complessivamente queste persone, ovviamente è impossibile da sapere, ma il fatto che ci siano è positivo perché significa che la barriera di resistenza all’onda lunga dell’indifferenza ancora regge.
A beneficiare della solidarietà concreta, cioè di quella che si spinge oltre il facile muro delle parole compassionevoli che servono a dare sfogo alla solita fastidiosa retorica autoassolutoria ma non esercitano in alcun modo un cambiamento, sono cinque donne ezide che hanno subito violenze atroci da parte dei miliziani dell’ISIS.

Lo scorso gennaio, infatti, il gruppo di avvocati che le assiste pro bono ha depositato un ricorso presso il Comitato delle Nazioni Unite contro la Tortura (1) al fine di fare pressione sullo stato australiano che non ha riconosciuto loro, attraverso i suoi tribunali e nei vari gradi di giudizio, inclusa la High Court, il diritto al risarcimento e ad altre prestazioni a carico dello Stato, per essere state vittime di abusi e torture da parte di un miliziano dell’ISIS che fino al 2017 era cittadino australiano.

La storia di queste cinque donne si intreccia tragicamente con quella di Khaled Sharrouf.
Le donne appartengono alla comunità ezida che vive in Iraq nella regione di Shengal. Nel 2014, a seguito dell’aggressione dell’ISIS, vengono rapite e vendute sul costituitosi mercato delle schiave (2). Subiscono ripetute violenze e torture di cui Khaled Sharrouf è autore.

Khaled Sharrouf è un tipo che fa venire i brividi. Nasce a Sidney (Australia) nel 1981 e ha doppia cittadinanza, australiana e siriana. In Australia nel 2005 viene condannato, quando è ancora molto giovane, per aver fatto parte di un gruppo armato che mirava ad attaccare obiettivi sensibili nel paese. Nel 2013 si trasferisce in Siria insieme a sua moglie e ai loro cinque figli. Inizia la sua militanza sul campo tra le fila dell’ISIS. Fa il giro del mondo la foto di lui e di suo figlio, di appena sette anni, che tiene stretto nella sua piccola mano lo scalpo di un soldato delle SDF (Forze Democratiche Siriane). Sharrouf dà in sposa la figlia tredicenne al suo miglior amico, anche lui militante dello stato islamico, probabilmente morto successivamente nel 2015 durante un attacco aereo statunitense. Di Sharrouf non è certa la data della morte, che potrebbe essere la stessa dell’amico, vittima insieme a lui dell’attacco aereo, oppure, come viene anche ipotizzato, sopravvissuto a questo per poi morire in un altro nel 2017.
Ciò di cui si ha certezza, invece, è la brutalità usata verso le sue cinque vittime, che hanno subito la triste sorte che ha investito ogni donna e ragazza ezida finita tra le mani dei miliziani del califfato: stupri, violenze e riduzione in schiavitù. Adesso queste donne coraggiose, che hanno respinto l’idea di “non parlare” per far finire tutto velocemente nell’oblio, nella speranza di dimenticare il più rapidamente possibile l’inferno che hanno attraversato, continuano a ricercare la giustizia riparatoria e chiedono allo stato australiano di farsi carico del loro dramma.
Il principio che il team di avvocati cerca di far passare è che i crimini commessi da Sharrouf cadono sotto la giurisdizione universale, superando così il concetto di giurisdizione territoriale. La ratio alla base del ricorso è che le vittime di crimini orribili, come quelli denunciati dalla Convezione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, non possano rimanere sprovviste di risarcimento e tutela, cosa che accade ripetutamente quando gli aguzzini sono membri di milizie non convenzionali, cioè che non appartengono ad uno Stato o a uno Stato riconosciuto a livello internazionale.

Nel caso in questione, Khaled Sharrouf militava nell’ISIS, non riconosciuto internazionalmente, ma aveva cittadinanza australiana. Emerge dunque la competenza a giudicare dell’Australia, secondo l’art. 5 della Convenzione, anche se la cittadinanza gli era stata revocata nel 2017 a seguito dell’introduzione di una legge che conferisce allo Stato il potere di cancellarla a danno di quei cittadini australiani in possesso anche di un’altra cittadinanza e che all’estero si uniscono ad azioni terroristiche. Tuttavia, al momento della commissione dei crimini di cui le donne sono state vittime, l’uomo era ancora cittadino australiano. Gli avvocati inoltre evidenziano una responsabilità diretta dello stato australiano poiché non ha impedito che Sharrouf lasciasse il paese, seppur fosse nota la sua attività terroristica, la sua vicinanza all’ISIS e quindi la sua pericolosità.

Gli avvocati pertanto ritengono che l’Australia debba farsi carico del risarcimento a favore delle cinque donne ezide vittime di tortura, che per lo stato australiano del Nuovo Galles del Sud, dove Sharrouf risiedeva, equivale a US$10.000 per vittima oltre all’accesso a diversi servizi.

Il tentativo che gli avvocati si prefiggono di raggiungere è dunque quello di inchiodare a comportamenti coerenti il governo australiano e, per riflesso, l’intera comunità internazionale, che nelle dichiarazioni pubbliche manifestano la massima vicinanza alle vittime, si indignano per le violenze che hanno dovuto sopportare e per il calvario attraverso il quale ancora devono passare, nella fase dolorosa dell’elaborazione di quanto è successo e dell’ingiustizia subita, ma alla prova dei fatti declinano responsabilità e riescono a trovare giustificazioni alla loro inerzia e persino al rifiuto di riconoscere un diritto al risarcimento e alla riparazione a favore di queste. Questi comportamenti, frutto di interpretazioni giudiziarie ma anche di scelte politiche, perché è nei parlamenti abitati dai partiti che le decisioni legislative vengono adottate, nella realtà si traducono nell’abbandono delle vittime di crimini orrendi da parte degli Stati.
Gli avvocati non nascondono la loro speranza che, dovesse il Comitato riconoscere le motivazioni alla base del ricorso, questo caso possa fare da apripista a tutte le altre situazioni in cui le vittime di tortura, presenti in diverse parti del mondo, oggi si trovano ad affrontare le stesse difficoltà che stanno sperimentando anche le cinque donne ezide.

Il risarcimento alle vittime non potrà mai cancellare la gravità di quello che è successo ma avrebbe l’effetto positivo di aiutarle nel loro inevitabile percorso di reinserimento nella società ed eviterebbe di sottoporre queste donne al peso psicologico che grava su ogni vittima di una violenza terribile, costretta a raccontarla in più sedi e a riviverne il dramma, “mendicando” giustizia e rischiando di vivere il senso dell’abbandono da parte di quelle istituzioni che non lesinano dichiarazioni di convinto supporto e vicinanza. Non va dimenticato che il genocidio ezida del 2014 (3) è già stato riconosciuto dal Parlamento Europeo e dall’ONU nel 2016, a gennaio di quest’anno dalla Germania e il 1 agosto anche dal governo del Regno Unito. L’Associazione Verso il Kurdistan odv sta facendo pressione in Italia sul Parlamento affinché anche questo lo riconosca.

Ottenere giustizia non è solo una vittoria in punto di diritto ma lo è anche sul piano politico perché contribuirebbe a riconoscere che tragedie come quella subita dalla popolazione ezida e dalle sue donne è un dramma che coinvolge l’intera umanità, è quindi universale e come tale deve essere trattato, anche nelle risposte concrete, che chiamano in causa la politica, da indirizzare a chi non ha chiesto né desiderato essere vittima di tanta brutalità.

Link:

1 – https://cde.univr.it/index.php/rapporto-cat-art-4-2-3-2-2-2-2-2-2-2-3-2-2-3/

2 – https://www.youtube.com/watch?v=rTK_IYqH1hs&t=1239s

3 – http://alkemianews.it/index.php/2023/07/16/il-popolo-ezida/