KURDISTAN IRANIANO: LA SCOMPARSA DI WARISHEH MORADI

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Il 21 ottobre scorso si è svolta la premiazione della 15°edizione del Premio internazionale Daniele Po presso la Sala Cappella Farnese in Palazzo D’Accursio a Bologna. Un premio che conferisce ogni anno un riconoscimento a personalità femminili che, a livello nazionale o internazionale, si siano particolarmente distinte nella difesa dei diritti umani.

L’attenzione dell’edizione 2023 si è rivolta all’Iran con la premiata Zayneb Zinat Bayazidi, attivista curdo iraniana più volte arrestata e imprigionata per le sue idee dal regime iraniano. Giornalista che ora vive in esilio in Germania e continua a tenere alta l’attenzione sulla condizione delle donne e della minoranza curda in Iran insieme al movimento internazionale che si riconosce nello slogan di resistenza “Donna, Vita, Libertà”(Jin, Jiyan, Azadi).

Durante questo evento sono venuta a conoscenza, proprio dalla premiata Zayneb, della scomparsa di Ciwana. Non riuscivo a credere che si trattasse proprio della stessa attivista curda conosciuta nel 2018 a Sulaymaniyya.

Il regime iraniano nella sua continua prosecuzione delle politiche di esclusione e violenza contro le donne della Repubblica Islamica dell’Iran, aveva rapito e fatto sparire con la forza, una delle più note attiviste del Kurdistan, Warisheh Moradi, conosciuta come “Ciwana Sine”.

Ciwana è membro della Società delle donne libere del Kurdistan orientale (Kjar) ed è stata rapita il 1 agosto 2023 vicino alla città di Sanandaj (Sine) dalle forze di sicurezza della Repubblica islamica dell’Iran e portata in una località sconosciuta.

Il suo impegno è sempre stato rivolto alle questioni politiche e femministe delle donne, come la protezione dalla violenza, l’uguaglianza e l’autodeterminazione e per una trasformazione sociale positiva ottenuta attraverso progetti mirati sviluppati in molte aree dell’Iran, con grande dispiacere del regime dei mullah.

In una nota diffusa da “The campaign to locate Warisheh Moradi” si legge:
“Dal momento del suo rapimento, e nonostante il continuo monitoraggio della sua famiglia e dei suoi parenti e delle istituzioni di sicurezza del regime iraniano, non è stata ottenuta alcuna informazione sul suo stato di salute e su dove si trovi. Questa mancanza di informazioni ha creato un’ondata di preoccupazione non solo per la famiglia ma anche per l’opinione pubblica in Kurdistan e per molte organizzazioni e donne attive in Iran”.

Warisheh Moradi è una di queste donne attive del Kurdistan. Al momento del suo rapimento, era impegnata in attività politiche e civili e nell’organizzazione segreta delle donne in Iran.
Le sue attività hanno fatto infuriare la Repubblica islamica che spesso reagisce prendendo di mira le donne che rivendicano libertà.
Questo regime misogino e teocratico agisce deliberatamente e sistematicamente per eliminare la volontà delle donne, soprattutto impegnandosi in sparizioni forzate e mettendo in atto tutti i tipi di tortura mentale e fisica. In special modo in questo periodo in cui donne come Warisheh, svolgono un ruolo centrale nel movimento rivoluzionario Jin, Jiyan, Azadi in Kurdistan e Iran.

Immediatamente dopo la sparizione di Ciwana, il gruppo di attiviste politiche, civili e femminili in Kurdistan e Iran hanno annunciato l’avvio di una campagna chiamata “Dov’è Warisheh Moradi? Libertà per Warisheh Moradi”, attivata sia per condannare la scomparsa forzata della loro attivista e sia per avere informazioni sulla sua sorte e stato di salute. L’appello è stato inviato anche al Parlamento Europeo, al Relatore Speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, al Consiglio dei Diritti Umani nelle Nazioni Unite, ad Amnesty International, alla Croce Rossa, ai parlamentari e ai partiti, a livello internazionale, affinché sostengano questa campagna ed operino in modo da costringere il regime iraniano a rispondere sulla situazione di Warisheh Moradi e di altri prigionieri politici in Kurdistan e Iran.

Il canale telegram “Rojava Vive” il 23 maggio scorso riporta una notizia sulla sorte di Ciwana.
Attraverso una ricerca del Kurdistan Human Rights Network (KHRN), si è saputo che dopo il suo arresto del 1 agosto 2023, Warisheh era stata, per settimane, brutalmente torturata, maltrattata e interrogata dai servizi segreti iraniani a Sine (Sanandaj) sua città natale, fino al suo trasferimento a Theran a fine agosto 2023.

L’accusa
A febbraio scorso è stata accusata di “Inimicizia verso Dio” e “Ribellione armata contro lo Stato”, in relazione alla sua presunta appartenenza al “Partito per una vita libera in Kurdistan” (Pjak).
Il Pjak è considerato in Iran una “organizzazione terroristica separatista” ed è, per questo, un partito oppresso e perseguitato.
Le accuse rivolte a Warishe sono punibili con la morte e sono state inviate alla Sezione 15 del Tribunale rivoluzionario di Theran.
Warisheh si trova ora nel carcere Evin di Theran insieme ad un’altra attivista, Pakhshan Azizi arrestata anche lei ad agosto con l’accusa di essere del Pjak. Pakhshan era già stata arrestata diverse volte per il suo lavoro di giornalista. La prima volta nel novembre 2009 per aver preso parte alle proteste studentesche contro l’esecuzione di prigionieri politici curdi.

Ora le due attiviste Warishe e Pakhshan hanno iniziato uno sciopero della fame per protestare contro il trasferimento di Warisheh nell’ala 209 del carcere Evin di Theran.
L’ala 209 si trova sotto controllo del Ministero dell’intelligence iraniana. E’ composta da celle di isolamento. ed è nota per le gravi torture ai prigionieri politici.
Secondo il KHRN con sede a Parigi, il trasferimento di Warishe all’ala 209 è stato ordinato dal giudice Abolqasem Salavati che presiede il Tribunale rivoluzionario di Theran, noto per le sue dure sentenze e decisioni in casi che coinvolgono la “sicurezza nazionale”.
A causa delle numerose condanne a morte emesse, Salavati è conosciuto come il “giudice della morte”.

 

L’incontro con Ciwana Sine e Berivan
Nel 2018, durante il consueto viaggio di solidarietà con il popolo curdo organizzato da Uiki (Ufficio d’informazione del Kurdistan in Italia) e dall’Associazione Verso il Kurdistan di Alessandria, abbiamo avuto la possibilità, a Sulaymaniyya, città del Kurdistan iracheno vicino al confine con l’Iran, di parlare della situazione curda in Iran.

Abbiamo incontrato due attiviste dell’Organizzazione Kejar (Unione delle donne libere del Rojhelat). Due combattenti, dal nome in codice di Ciwana Sine e Berivan, con le quali si è immediatamente creata una profonda atmosfera di amicizia, nonostante il poco tempo trascorso insieme.

La loro testimonianza è iniziata nel raccontare che cos’è stato in passato l’Iran dal 1921 ad oggi. Da ricordare l’esperienza della Repubblica di Mahabad nel 1941, durata solo un anno ma con un importante valore storico riconosciuto ancora oggi in quanto i curdi erano riusciti a realizzare uno stato di fatto indipendente.
A Mahabad fu coniata la parola “peshmerga”, colui che è votato alla morte per la vita del Kurdistan.
Il popolo curdo aveva creduto molto nella Rivoluzione islamica del 1978 perché Khomeini, durante il suo esilio a Parigi, aveva promesso autonomia, diritto di vivere in pace e libertà, mentre invece, subito dopo il ritorno in patria, dichiarò guerra ai curdi. Emblematiche furono le sue affermazioni: “Uccidere un curdo non è peccaminoso, perché sono degli infedeli in quanto tolleranti e soprattutto non sono fanatici”.
L’avversione verso i curdi è data anche dal fatto che il 75% di loro professa la religione sunnita, considerata da Khomeini come una fonte di divisione all’interno della comunità musulmana, motivo per cui le minoranze etniche non avevano alcun motivo di esistere.

Ciwana continua a raccontare parlando dei partiti di sinistra nel suo paese.
I due partiti d’opposizione sono il Partito Democratico del Kurdistan d’Iran (PDKI) fondato nel 1945, il più longevo e ancor’oggi attivo, e l’Organizzazione rivoluzionaria dei lavoratori del Kurdistan (Komala) d’ispirazione maoista, fondata nel 1969 da un gruppo di studenti attivisti curdi.

E’ con la cattura di Ocalan nel 1999 che è esploso il nazionalismo curdo.
Molti giovani sono entrati nella guerriglia e nel 2004 nasce una nuova formazione di stampo nazionalista denominata “Partito per una vita libera in Kurdistan (PJAK), considerato da Iran, Stati Uniti e Turchia, un’organizzazione terroristica.
Questa partito, rappresenta l’evoluzione dello scontro dei curdi impegnati nella lotta armata contro le autorità dello Stato invocando l’indipendenza e l’autodeterminazione del Kurdistan iraniano. E’ infatti oggi uno dei più importanti partiti politici che lavora per garantire i diritti democratici e nazionali del popolo curdo in Iran.
Con la sua nascita i vecchi partiti perdono potere e speranza.
Il Pjak ha formato poi un’ala militare e politica. L’ala politica “Kodar” (La Società Libera e Democratica del Kurdistan Orientale) che ha sede in Europa e in Iraq, opera invece in Iran in modo clandestino per mettere in pratica il Confederalismo Democratico ed una Repubblica democratica dei popoli.

Alla fine del 2017 sono iniziate molte proteste da parte della popolazione in diverse città per ottenere libertà e diritti fondamentali. Una rivolta che è il risultato di una politica di regime durata 38 anni che limita la società nella sua libera volontà.
Una richiesta ovviamente non accolta dal regime, provocando così, in modo del tutto legittimo, la rivolta.
Una ribellione del popolo per la democrazia, contro il fascismo e la dittatura del regime islamico. E’ evidente che l’Iran vuole diventare una forza unica in Medio Oriente e, per questo, il regime cerca di imporre, alla società, anche con la repressione, la propria mentalità. La popolazione si trova sotto totale controllo ed i partiti di sinistra, non potendo più lavorare all’interno del paese, sono costretti a fare opposizione dall’estero.

“Il lavoro dell’organizzazione Kejar – prosegue Ciwana – è contro il sistema con attività organizzate militari. Sono guerrieri e come tali operano in clandestinità ovunque c’è bisogno. L’Iran è il paese con il più alto numero di esecuzioni pro capite al mondo. Lo stato uccide per traffico di droga, omicidio, rapina, guerra a Dio, atei, stupro, adulterio e naturalmente per reati di natura politica o appartenenti a minoranze etniche come curdi, azeri, baluci e ahwazi. Per queste persone i processi sono rapidi e severi e si risolvono con la pena di morte. L’impiccagione è il metodo più usato e si continua a uccidere anche in pubblico. La condizione della donna in questo contesto è facile da immaginare. Non possono fare niente in piena autonomia, né organizzarsi in politica e, in caso di reati, le pene sono molto più severe rispetto al maschio. Se per esempio, una donna si rifiuta di sposare un uomo che invece la vuole, l’uomo può usare l’acido nei suoi confronti.
La situazione in Iran è al collasso. Il Kodar, Kejar e il Pjak hanno presentato al governo progetti per trovare una soluzione democratica, ma il governo non ha accettato e, come risposta, ha ucciso tre giovani combattenti che si trovavano in carcere.
Il partito Kamala aspetta un possibile intervento americano per poi accodarsi e combattere il regime. Il Pjak, invece si rifiuta di chiedere ad altri stati d’intervenire con le armi, perché la popolazione, per contrastare il regime, si può organizzare in maniera collettiva.
Il movimento Kejar, dal momento che opera fuori dal paese, è in grado di mettere in rete il suo pensiero, le attività, la politica e la condizione della donna, senza problemi. Spera di mettere in pratica anche in Iran la proposta di una “Democrazia dei Popoli”, ossia di mettere insieme tutte le forze di sinistra per contrapporsi ai regimi dittatoriali”.

Le proteste popolari contro il regime continuano in oltre 50 città in Iran e nel Rojhelat con i manifestanti che scendono in piazza di notte, a causa della forte repressione governativa, gridando “Morte al dittatore” e “Vogliamo un referendum”.

Alla fine del nostro incontro, le ultime richieste di Ciwana e Beritan sono state cosa possiamo fare noi in Italia per aiutarle nella loro lotta.

Ciwana Sine, nel febbraio 2021, ha rilasciato una dichiarazione relativa alla politica iraniana di persecuzione attuata nei confronti delle donne. Ha affermato, prima di tutto, che le donne in Iran non si sono mai sottomesse al regime e che si ribellano costantemente alla politica di esecuzione e omicidio. Poi si è rivolta direttamente alle donne iraniane con queste parole: “È ora che le donne si rialzino, possiamo fermare l’esecuzione delle donne solo in questo modo”.

La situazione delle donne in Kurdistan
Storicamente la donna in tutto il mondo ha sempre dovuto subire differenze sostanziali nei rapporti sociali. Una discriminazione senza confini.

A parte alcuni esempi di società matriarcali, molto lontane nel tempo, il mondo si è sempre retto sul patriarcato. La forma di violenza più usata era quella del “delitto d’onore”. Un tipo di reato caratterizzato dalla motivazione soggettiva di chi lo commette per salvaguardare una forma di onore o reputazione verso alcuni ambiti relazionali, come per esempio, il matrimonio, i rapporti sessuali e la famiglia. Ancora oggi, in alcune legislazioni l’onore è inteso come un valore socialmente rilevante di cui bisogna tenerne conto sia a fini giuridici che in ambito penale.

I modi utilizzati per difendere l’onore spaziano da una violenza fisica, psicologica (privazione della libertà, istruzione, cibo e induzione al suicidio) fino ad arrivare all’omicidio. In ogni circostanza, il modello di violenza maschile resta dominante.
Le guerre in genere e i genocidi contribuiscono, inoltre, ad aumentare le violenze di genere e l’uso del codice d’onore.

L’emancipazione femminile nel mondo si è sviluppata in tempi e modi diversi.
Le donne dei gruppi etnici minoritari, come curdi, baluchi e arabi, devono affrontare una forte discriminazione. Sono perseguitate come donne e private della giustizia sociale, economica e dei loro diritti nazionali.
Una discriminazione che fa parte delle fondamenta della Repubblica islamica che governa sulle basi della legge islamica sciita. Quest’oppressione patriarcale è istituzionale, con molte conseguenze negative, come i matrimoni infantili, tragedie familiari, suicidio tra giovani e bambini, abusi e sfruttamento sessuale.
Queste politiche repressive, hanno solo aggravato il malcontento dell’opinione pubblica nei confronti del regime.

In Rojhelat (Kurdistan orientale), in pochi anni sono infatti scoppiate proteste anti regime nel più completo silenzio da parte dei media internazionali.
Il Corpo delle guardie rivoluzionarie islamiche, il cui compito è quello di proteggere la rivoluzione islamica da minacce interne, ha represso queste proteste in modo molto violento. Si sente parlare dai media europei, delle donne iraniane e delle loro battaglie, solo in coincidenza di episodi significativi. In realtà, invece, la letteratura dice che le mobilitazioni femministe iraniane sono presenti già alla fine dell’Ottocento e sono continuate con la rivoluzione costituzionale dei primi del Novecento.
Le donne iniziarono a impegnarsi non solo per la condizione femminile ma anche per quelle economiche e politiche della società, dimostrando di non essere soggetti passivi e disinteressati.

Abdullah Ocalan, leader del movimento nazionale curdo che lotta per la liberazione del suo popolo, si è sempre occupato della questione della liberazione delle donne, mettendola al centro di questa lotta.

La differenza biologica della donna viene usata come giustificazione per la sua riduzione in schiavitù. Tutto il lavoro che svolge viene dato per scontato e definito come “lavoro da donna”, privo di valore. La sua presenza in ambito pubblico viene definito come vietata dalla religione, moralmente deprecabile e, così, viene progressivamente esclusa da tutte le attività sociali importanti. In questo modo l’idea di “sesso debole” diventa un’idea condivisa.

Il PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan) nella sua lotta per la libertà del popolo curdo, non ha combattuto solo contro il disastro del colonialismo, ma anche contro il feudalismo interno per cambiare la condizione delle donne e mettere fine alla schiavitù della società in generale. Moltissime donne, sono state quindi attratte dalla lotta non solo per resistere alla violenza della società ma soprattutto per mettere fine alla loro condizione di subalternità. (1)
Le donne curde, sin dagli anni ‘80, hanno iniziato ad organizzarsi come un movimento, dentro e fuori all’organizzazione, per prendere e dare seguito a decisioni che riguardavano la loro situazione e la società in generale.
La scelta quindi di seguire il movimento diventava e diventa ancor oggi, un modo per liberarsi dall’oppressione della famiglia, della società e, allo stesso tempo, avere la possibilità di accedere ad una formazione culturale.
Non necessariamente questa scelta obbliga poi la donna ad andare in montagna a combattere. Per aiutare il popolo ed essere anche indipendenti, esistono altre possibilità, come ad esempio, organizzare seminari, raccolta fondi, attività relative alla comunicazione e formare altre donne.

Il movimento femminile curdo è riuscito anche a sviluppare strutture autonome in diversi settori e, proprio per questo, le donne del Kurdistan oggi sono in grado di poterci insegnare tantissime cose. Grazie alla loro determinazione e sicurezza, sono in grado di affrontare la dura realtà di una lotta in cui possono trovare anche la morte.

Il Kurdistan orientale (Rojhelat)
Il Kurdistan non è mai stato uno Stato unico. Fu privato della sua unità nazionale per la prima volta nel 1639 con il Trattato di Zuhab che pose fine ad oltre un decennio di guerra tra l’Impero Ottomano e l’Impero Persiano Safavide.

Il trattato divise il Kurdistan in due parti, assegnando la Georgia occidentale, l’Armenia occidentale e la Mesopotamia all’Impero Ottomano, mentre mantenne sotto il dominio persiano safavide, l’Armenia orientale, la Georgia orientale e l’Azerbaigian, fino all’inizio del XX secolo. Un secolo di guerre e tribolazioni per il Kurdistan e il popolo curdo.

La prima guerra mondiale ha portato una serie di accordi tra le potenze imperiali. L’accordo Sykes-Picot del 1916 fu seguito il 10 agosto 1920 dal Trattato di Sevres e poi il 24 luglio 1923 da quello di Losanna. Quest’ultimo Trattato ha abbandonato ogni concetto di autodeterminazione per il popolo curdo dividendo il Kurdistan in quattro parti. La parte del Kurdistan precedentemente controllata dall’Impero Ottomano era stata divisa tra Turchia, Iraq e Siria, mentre la parte controllata dai Safavidi divenne parte dell’Iran.
E’ in questo modo, che il Kurdistan è diventato una colonia interstatale con quattro nuovi Stati tracciati con una matita su una carta geografica. Divisione imperialista e colonialista che ha consentito ancora oggi di poter opprimere il popolo curdo, sfruttandone così le risorse del territorio. (2)

L’Iran ha una storia di amministrazione provinciale, ma che non è stata a beneficio dei diversi popoli dello Stato, ma piuttosto ha creato un governo forte e centralizzato.

Oggi l’Iran è diviso in 31 province, i cui confini sono stati disegnati per servire obiettivi politici. Esiste, per esempio, una provincia chiamata Kurdistan ma include solo una piccola parte dell’area a maggioranza curda che rientra nei confini dell’Iran. Il Kurdistan orientale (iraniano), noto come Rojhelat (est), è stato diviso in cinque diverse province: Azerbaigian occidentale, Kurdistan, Kirmasan, Ilam e Luristan. Inoltre, vi sono anche consistenti popolazioni curde nelle province del nord Khorasan e Razavi Khorasan nel nord-est dell’Iran. E’ grazie a questa divisione che è stato possibile attuare un programma di persianizzazione. La divisone ha certamente reso tutto più semplice!
La lingua curda non è vietata nell’uso pubblico, ma è definita come “lingua locale” ed è tollerata in generale solo nella vita quotidiana. Il persiano è invece la lingua ufficiale dello stato in tutte le regioni e province ed i persiani sono al centro della società iraniana, mentre gli altri popoli sono considerati “periferici”. (2)

In tutte le quattro parti del Kurdistan, l’economia è sempre stata su base agricola. I pascoli fertili hanno dotato il Kurdistan di ricchezze naturali, mentre i fiumi supportano la crescita dei cereali.
Il Kurdistan è anche un luogo strategicamente importante per le molte risorse naturali.
Risale infatti, al 1908, la scoperta del petrolio e per questo, l’area divenne il centro dell’interesse delle potenze mondiali, come Regno Unito, Francia, Germania e Russia.
Nonostante tutte queste ricchezze, i curdi, nelle loro terre, non ne hanno quasi mai beneficiato.

La popolazione di Rojhelat costituisce il 17,5% della popolazione iraniana, mentre la quota dei curdi dei processi industriali è di circa solo il 3%.
Il petrolio e il gas naturale in Kurdistan rappresentano il 67% delle risorse energetiche in Iraq, ma per la regione curda il boom petrolifero non è stato positivo.
Il governo di Baghdad durante la sua campagna per eliminare le aree rurali curde distrusse alla fine quasi 4.000 villaggi.
La Turchia ha distrutto villaggi curdi ed ha dato inizio ad espulsioni forzate delle popolazioni indigene curde stanziate nei pressi dei giacimenti petroliferi di Siirt e Amed (Diyarbakir).
Il regime siriano, invece, ha negato la cittadinanza a più di 300.000 curdi che vivevano vicino ai giacimenti petroliferi di Qamishlo nel nord-est della Siria. (2)

I territori che compongono il Rojhelat sono tra i più poveri e meno sviluppati dell’Iran perchè al governo centrale non interessa sviluppare quella parte del paese.
In Rojhelat inoltre arrivano pochissimi investimenti stranieri.
A causa della povertà e della mancanza di opportunità, molti curdi percorrono centinaia di chilometri all’interno dell’Iran per ottenere un lavoro anche di breve durata. In alternativa, accettano, pur di poter sopravvivere, anche di trasportare merci attraverso i confini iracheni o turchi. Questi ultimi vengono chiamati “kolber”.

I kolber includono anche donne, bambini e anziani. Il loro numero è in aumento.
Secondo le statistiche iraniane, più di 20.000 persone nella sola provincia del Kurdistan lavorano come kolber, senza assicurazioni, piani pensionistici o sindacati.
E’ un lavoro molto pericoloso, molti di loro infatti muoiono congelati o cadendo dalle montagne di confine, inoltre, essendo considerato un lavoro illegale, si rischia di essere uccisi, quando si viene scoperti dalle guardie di frontiera iraniane(2).

I kolber non sono solo in Iran, ma in tutto il Kurdistan.

Il Massacro di Roboski è un esempio di atrocità contro il popolo curdo.
Nella notte del 28 dicembre 2011 a Roboski, un piccolo villaggio in mezzo ad alte montagne turche al confine con l’Iraq, l’aviazione turca prese di mira. con un feroce bombardamento di bombe chimiche, una colonna di 37 civili, tutti uomini e ragazzi che trasportavano con asini gasolio e altro materiale di contrabbando. 34 persero la vita, di cui 17 erano minori. I corpi anneriti rimasero sparsi sulla neve insieme agli arti mutilati degli asini che trasportavano la merce. Nessuno ha pagato per quel massacro perché la giustificazione di Ankara è stata banale: ”Ci scusiamo, abbiamo commesso un errore”.

 

Il Rojhelat è completamente militarizzato. L’Iran non ha solo l’esercito iraniano regolare, ma anche molti membri del Sepah Pasdaran (Corpo della Guardia Rivoluzionaria Islamica, IRGC) nella regione del Kurdistan. L’esercito e l’IRGC esercitano il controllo sui villaggi e sulle aree vicine ai confini con Iraq e Turchia, mentre l’agenzia di intelligence controlla le città curde.

Il rapporto di Amnesty International sul sistema carcerario iraniano
Nelle prigioni in Iran si trovano migliaia di prigionieri politici curdi e attivisti democratici che hanno tentato di rivendicare i diritti umani, l’emancipazione delle donne, la protezione dell’ambiente, i matrimoni precoci e le condizioni dei lavoratori.
Proprio a causa dell’estrema oppressione che il popolo curdo dell’Iran subisce da parte del regime iraniano, la sua attiva partecipazione, all’interno dei movimenti sindacali, studenteschi, delle donne e di altri movimenti politici, è molto alta rispetto agli altri cittadini iraniani.

Secondo molti rapporti del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani e di Amnesty International, il governo iraniano è stato costantemente uno dei principali trasgressori dei diritti umani al mondo. Le violazioni dei diritti umani sono all’ordine del giorno, con attivisti politici curdi che subiscono torture, pene severe e, in molti casi, la pena di morte.

Un rapporto datato maggio 2018, afferma che l’Iran deteneva 200.000 prigionieri nel sistema carcerario sovraffollato del paese e che la metà di tutti i prigionieri politici erano curdi. Secondo Amnesty International, nel 2015 in Iran sono state giustiziate più di 997 persone, di cui il 45% curde. I curdi hanno rappresentato il 43% di 567 esecuzioni nel 2016; il 48% di 531 esecuzioni nel 2017; il 55% di 277 esecuzioni nel 2018 e il 43% di 251 esecuzioni nel 2019. (2)

La rivoluzione iraniana del 1979
Cominciata come una normale rivolta popolare, nessuno si aspettava che il regime dello Scià sarebbe crollato così facilmente. Solo sei mesi prima il regime era al suo massimo splendore. La malattia poi dello Scià ha reso possibile il collasso della monarchia.
L’unico leader che poteva guidare quella situazione caotica era un Imam in esilio semisconosciuto. Un carismatico ottantunenne sorridente e pacifista. Sembrava un mistico guru, invece era un mago dell’inganno. Diceva di volere un paese più democratico della Francia, dove viveva in esilio, ma nei suoi libri disprezzava la democrazia e teorizzava il fondamentalismo teocratico. Ovvero, delegare la propria patria podestà al capo supremo e governare il paese solo con la legge coranica.
Sicuro del suo successo, ormai leader indiscusso, rivelò poi la sua vera natura e una volta preso il potere, non fu più riconoscibile.
I primi a pagare la sua violenza furono, come al solito, i curdi. (4)

La beffa della democrazia promessa dalle manifestazioni di strada, trasformatasi in breve in controllo scientifico sulla vita degli iraniani, ha evidenziato quanto sia stato semplice per lui e i suoi seguaci, manipolare il movimento rivoluzionario.
“Come possiamo restare inermi di fronte a una banda di traditori e usurpatori, agenti di poteri stranieri, che si sono appropriati del benessere e dei frutti del lavoro di centinaia di milioni di musulmani? L’islam dà nel Corano e nella Tradizione tutte le leggi e i principi necessari all’uomo per la sua felicità e perfezione” (Khomeini).
E non a caso, i mullah, seppero esprimere l’opposizione più dura alla modernizzazione economica e dei costumi voluta dallo Scià.
Nei primi mesi del 1980 fu avviata la Rivoluzione culturale. Tutte le università furono chiuse fino al 1982 per una vera e propria epurazione, soprattutto di religiosi dissidenti e per l’imposizione dell’Islam come base scientifica per lo studio di qualsiasi materia. (3)

Jin, Jiyan, Azadi – Donna, Vita, Libertà

Queste sono tre parole che racchiudono i principi delle proteste in difesa dei diritti delle donne. Uno slogan ripetuto nelle piazze, in televisione, alla radio, sui social, sui giornali, nei discorsi, nelle canzoni, ma che non si riferisce solo alla libertà della donna, ma anche alla libertà di un’intera società. Uno slogan che permette alle nuove generazioni di manifestare contro le vecchie idee della società, della famiglia e della patria.
Un grido di libertà che non è nato all’improvviso ma che ha radici lontane proprio nella letteratura curda.

I concetti politici principali legati a questo slogan, sono nati sui monti Qandil attraverso la lunga storia di resistenza delle donne curde e di lotta contro la colonizzazione patriarcale interna ed esterna al mondo curdo.
Lo slogan formulato nel carcere di Imrali da Ocalan, leader politico curdo, è stato ispirato dalle lotte e dalla resistenza delle donne curde, attive nei movimenti di liberazione curdi, ancora prima della sua stessa militanza.
Ocalan, nell’approfondire questo concetto, riconosce e denuncia che la storia della civiltà, vecchia di 5000 anni, è innanzitutto la storia della schiavitù delle donne. Sostiene inoltre, che la società non sarà mai libera, senza la liberazione delle donne, poiché rappresentano il potere delle società organiche, naturali ed egualitarie che hanno caratterizzano la vita degli esseri umani prima ancora dell’avvento della civiltà. Lo slogan infatti, vuole esprimere l’intento liberatorio e la comprensione di Ocalan dell’origine del patriarcato.

E’ dalle montagne di Qandil, che le donne curde hanno costruito, su questi principi, la loro solidarietà di base con le altre donne, nelle diverse parti del il Kurdistan e nel mondo.
Così Jin, Jiyan, Azadi ha mobilitato le donne del Kurdistan settentrionale (Bakur) e in Turchia, caratterizzando anche la rivoluzione delle donne in Rojava e in Siria sotto le YPJ (Unità di protezione delle donne).

Oggi, è diventato una motivazione unificata per il movimento rivoluzionario nel Rojhelat e in Iran. Gli attivisti solidali con le donne iraniane scandiscono nelle piazze e nelle strade proprio questo slogan senza dover appartenere ad un gruppo politico specifico. Uno slogan che è andato oltre le sue origini, trovando una nuova identità globale nella lotta delle donne per la propria dignità.

La lotta delle donne iraniane è segnata da un episodio importante e significativo.
Il 16 settembre 2022 in un centro di detenzione di Teheran, muore Jina Mahsa Amini di 22 anni originaria del Kurdistan iraniano, fermata alcuni giorni prima dalla polizia religiosa perché non indossava correttamente il velo islamico. La sua morte ha provocato enormi proteste durate oltre quattro mesi in tutto il paese. La risposta del regime è stata una terribile violenta repressione. Si stimano 500 manifestanti uccisi negli scontri, migliaia i feriti e almeno 20mila arrestati. Sette degli arrestati sono stati condannati a morte per impiccagione.
La tentata rivoluzione del popolo iraniano si è trasformata così in un movimento di diffusa resistenza portata avanti soprattutto dalle donne. Le proteste non hanno ottenuto cambiamenti tangibili nel sistema politico e nella gestione del potere, ma i manifestanti però sono riusciti a trasformarle in una nuova forma di resistenza costante sostenuta soprattutto da donne e giovani.

L’uccisione di Jina ha contribuito almeno ad incutere forza e coraggio ai movimenti femministi in tutto il mondo. Lo slogan, anche in suo ricordo, è stato cantato in molte città dell’America Latina, Europa e Stati Uniti.
Oggi, Jin, Jiyan, Azadi, fa ormai ufficialmente parte del vocabolario politico di tutto il mondo.

Il movimento e la lotta per la libertà del popolo curdo, rappresenta la rivolta contro i numerosi strati di colonizzazione accumulati nel corso della storia. Lo scopo non è solo quello di liberare il Kurdistan dalla colonizzazione attuata dagli stati dominanti, ma è anche il tentativo globale di decolonizzare la vita dal dominio del potere. Le donne curde sono una colonia nella colonia e la loro rivoluzione è una rivoluzione nella rivoluzione.

Jin, Jiyan, Azadì, non ha solo messo in discussione l’esistenza del regime iraniano, ma offre anche un’alternativa alla politica globale, alle strutture sociali, politiche, culturali ed economiche esistenti. Una motivazione importante per tutti i movimenti femministi perché offre una soluzione attuabile alla profonda crisi della civiltà odierna.
Una soluzione reale per una vera partecipazione diretta e democratica. (5)

Fonti:
(1) La rivoluzione delle donne di Abdullah Ocalan
(2) Documento informativo sul Rojhelat del KNK (Congresso nazionale del Kurdistan)
(3) Libro “Il grande Iran” di Giuseppe Acconcia
(4) Libro “Ritorno in Iran” di Fariborz Kamkari
(5) Articolo “L’impatto globale di Jin, Jiyan, Azadì” di Rojin Mukriyan